Il premier, la «bonaccia» e gli umori del Paese

di Fabio Ciaramelli
Lunedì 31 Luglio 2023, 23:50 - Ultimo agg. 1 Agosto, 06:45
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Una ventina di giorni fa, Giuseppe De Rita, fondatore del Censis e da alcuni decenni attento osservatore della società italiana e delle sue trasformazioni, in un’intervista a “La Stampa” ha parlato di “bonaccia meloniana”, e l’ha contrapposta alle perturbazioni che avevano caratterizzato il “periodo dei vaffa”.

Eppure, a leggere le cronache politiche quotidiane, e soprattutto i retroscena che imperversano sui siti e sui social, sembrava proprio altro.

E cioè che la maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni fosse attraversata da gravi divisioni interne, accentuate da mai sopite polemiche con la magistratura e con gli esponenti del cosiddetto “deep State” (cioè con le eminenze grigie che controllano le burocrazie dei ministeri), oltre che da un’aspra dialettica con le istituzioni europee. A dir la verità, nella sua analisi della tenuta del governo, Giuseppe De Rita non negava questi episodi, ma li considerava “fenomeni sovrastrutturali”, perché restano ben lontani dalla vita degli italiani e perciò si dimostrano incapaci di avere conseguenze significative sulla tenuta del governo. 

Forse oggi è possibile rincarare la dose. Nelle ultime settimane, infatti, la realtà s’è incaricata di smentire l’eccessivo catastrofismo dei retroscena e dei loro cultori. Le increspature interne alla maggioranza di governo si sono rivelate sempre più chiaramente solo increspature; a livello internazionale, poi, le cose vanno ancora meglio: la terza rata del PNRR è arrivata, Patrick Zaki è stato liberato, Giorgia Meloni ha incassato l’appoggio di Ursula von der Leyen e l’altro giorno, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, è stata ricevuta alla Casa Bianca da Joe Biden e poi ha anche interloquito col vecchio ma sempre autorevolissimo Kissinger. 
Tuttavia, se è vero che questi successi politici e diplomatici relativizzano l’allarmismo mediatico e le sue esagerazioni, le ragioni della tenuta del governo sono altre e affondano le loro radici in un insieme di stati d’animo e di atteggiamenti collettivi, che però non ignorano ma convivono con le annose criticità del nostro Paese. In altri termini, l’indubbio consenso di cui gode il governo di Giorgia Meloni non nasce né dall’ignoranza della crisi né dall’illusione d’averla lasciata alle spalle. Non sono affatto scomparsi l’insoddisfazione e il malcontento connessi al perdurare di disagi e disuguaglianze economiche: ma invece di esplodere – e poi subito anche placarsi e soddisfarsi – attraverso la scarica immediata della rabbia sociale, quell’insoddisfazione e quel malcontento ora scelgono altre strade, meno appariscenti e sperabilmente più efficaci. Ciò non significa che i problemi quotidiani legati all’impoverimento del Paese siano risolti, ma è evidente che la “strategia dei vaffa” ha ceduto il campo ad atteggiamenti che preferiscono salvare il salvabile o navigare a vista, e soprattutto darsi da fare per fronteggiare in ogni modo possibile gli affanni quotidiani senza indulgere nell’esplosione improduttiva del proprio rancore (in cui va riconosciuto il carburante fondamentale dei populismi). 

Nonostante tutto, però, se non ci si lascia fuorviare da polemiche congiunturali, che troppo spesso utilizzano l’analisi economica e sociologica come arma politica, si deve concludere che, nella fase attuale, l’innegabile persistenza di malessere e disuguaglianze non si sta trasformando in premessa immediata di fibrillazioni politiche.

Insomma, la tenuta del governo nell’immaginario collettivo non sembra minacciata né dalle conseguenze della già prevista sospensione del reddito di cittadinanza e né dai probabili tagli di spesa che forse costringeranno a rimodulare la riduzione fiscale promessa dalle forze di maggioranza.

Riconoscerlo non equivale a sminuire le difficoltà dell’ora attuale. Il punto è un altro. Non c’è nessun rapporto diretto tra l’impoverimento complessivo della società italiana e l’esplosione di tensioni sociali. Nessuno può negare il consolidamento dell’inflazione (sia pure solo al 6% e non più all’8%), il basso livello dei salari, la crescita in calo sul piano internazionale e le sue ricadute interne, la grave crisi dell’istruzione e il conseguente blocco dell’ascensore sociale. Ma altrettanto innegabile risulta la sostanziale tenuta del Paese e del suo diffuso feeling col governo. Proprio nei momenti di maggior crisi, verificata l’inutilità dei “vaffa”, emerge il “sex appeal” della stabilità: e quest’ultima si rivela molto più adeguata ad attraversare le difficoltà della crisi. 

A queste connessioni fa riferimento la suggestiva immagine della bonaccia evocata da De Rita, che naturalmente ammicca al celebre racconto satirico di Italo Calvino sulla “gran bonaccia delle Antille”. Non, però, senza una differenza fondamentale. Se nel 1957, per lo scrittore appena uscito dal PCI, la “bonaccia” era una metafora dell’immobilismo dei comunisti italiani, incapaci di liberarsi dal totalitarismo anche dopo la morte di Stalin, oggi per il sociologo del Censis la “bonaccia meloniana” non è in nessun modo effetto di immobilismo, ma invece conseguenza d’una leadership capace d’intercettare gli umori d’un Paese, diffidente di palingenesi, in quanto stanco di esplosioni di rancore e desideroso di continuare a destreggiarsi di fronte a emergenze vecchie e nuove.

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