Terremoti, l'Italia con la memoria corta: «Rincorriamo le devastazioni senza prevenirle»

Terremoti, l'Italia con la memoria corta: «Rincorriamo le devastazioni senza prevenirle»
di Generoso Picone
Giovedì 10 Settembre 2020, 18:00 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 14:09
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Parte oggi il viaggio del Mattino in occasione del 40° anniversario del sisma del 1980. Servizi, reportage e interviste per raccontare l'oggi tutelando la memoria e guardando al futuro. Ad accompagnare il lettore ci sarà il logo della storica pagina de «Il Mattino» del 26 novembre 1980: «Fate presto».
    


Emanuela Guidoboni deve conoscere bene l'affermazione di Jan Assman: «Quarant'anni marcano una soglia epocale, ossia il momento in cui il ricordo vivo viene minacciato dal declino e le forme del ricordo culturale diventano problematiche». Quarant'anni separano dal 23 novembre 1980, dalle 19,34 di quella domenica in cui l'Irpinia, l'alto Salernitano e la Basilicata vennero colpiti da un tremendo terremoto che scosse l'intero Sud: 2914 morti, 8848 feriti, 280mila sfollati, paesi rasi al suolo. Storica e sismologa dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologi, Guidoboni, docente all'Alma Mater di Bologna, ha appena scritto con altri scienziati ed esperti un Manifesto che, a 40 anni da allora, invoca «una strategia nazionale di riduzione dell'impatto dei terremoti sulle popolazioni esposte a maggior rischio, dopo cent'anni di fallimenti».
 

 


Guidoboni, che posto ha il caso Irpinia in questo secolo di fallimenti?
«È un terremoto che ha i contorni di un disastro dai numeri impressionanti, una prova drammatica della inadeguatezza del costruito. Il terremoto dell'Irpinia accadde a quattro anni da quello del Friuli di maggio e settembre 1976. Nel giro di poco, questi due eventi mostrarono al Paese la drammaticità di un secolare problema non risolto: dal Nord al Sud, i terremoti potevano azzerare vite e beni in aree molte estese. Era sotto gli occhi di tutti».

Con pesanti conseguenze sociali, economiche e anche politiche.
«Per la ricostruzione e il rilancio economico delle zone colpite nel 1980 lo Stato spese una somma enorme che comunque non garantì né la qualità né la completezza della ricostruzione e tanto meno servì da volano per lo sviluppo. Quindi, benché penso che non siano mancate esperienze positive, la ricostruzione dell'area colpita è stata molto discontinua, ha creato ingiustizie, aumentato differenze sociali ed emigrazione. Nel sentire diffuso del Paese ha segnato negativamente l'immagine stessa del Sud come area assistita, depressa e con estese illegalità, lasciando tuttavia in sottordine che la ricostruzione fu anche occasione di lucro per affaristi e imprenditori del Nord».

C'è una lezione che il terremoto d'Irpinia ha potuto dare all'Italia?
«La lezione è purtroppo sempre quella che ci danno da secoli i disastri sismici e che dimentichiamo. Al centro del problema c'è la persistente, grave e diffusa vulnerabilità del costruito abitativo e produttivo, di quello pubblico definito strategico e pure del patrimonio architettonico e storico: a parole ne andiamo molto fieri, lo definiamo identitario, ma lasciamo che ogni forte terremoto ne cancelli una parte».

Ma perché si dimenticano i terremoti?
«Dalla catastrofe del 1908, lo Stato in modi diversi ha espresso la volontà di fronteggiare e di contenere il rischio sismico, senza riuscirvi. La strategia iniziale fu quella di applicare norme antisismiche, poi modificate nel tempo, per la costruzione di nuovi edifici nei Comuni classificati a rischio. Occorreva quindi da subito un quadro della sismicità del Paese, che per altro già c'era, grazie gli studi di Giuseppe Mercalli e al grande catalogo di Mario Baratta del 1901. Ma la strada scelta fu invece di ignorare la comunità scientifica di allora e di classificare i Comuni come sismici soltanto dopo che avevano subito distruzioni».

Questo l'errore alla base dei fallimenti?
«In un certo senso sì, perché venne meno il concetto stesso di prevenzione, stabilendo di inseguire i disastri. In più, già negli anni 30 del secolo scorso numerosi Comuni furono declassificati a loro richiesta, aumentando il rischio sismico, come puntualmente misero in evidenza i terremoti successivi. Questa situazione è durata fino al 1980: subito dopo, con i programmi dell'ormai storico Gruppo Nazionale di Difesa dai Terremoti, fu aperta una strada affinché la comunità scientifica e la Protezione Civile lavorassero assieme per definire una nuova classificazione sismica di tutto il territorio in cui applicare le normative antisismiche. Questo è proseguito fino alla Mappa di pericolosità sismica dell'Ingv approvata nel 2009».

Intanto?
«Intanto il patrimonio edilizio ormai vecchio o inadeguato e vulnerabile ha continuato a sfasciarsi sotto i colpi di nuovi terremoti. Quindi, quale cultura diffusa poteva essere in grado di ricordare i disastri sismici e di trarne le conseguenze? C'è stato il vuoto e dimenticare è stato quasi un atto di volontà necessaria, non c'è stata una richiesta di sicurezza abitativa da parte dei cittadini per lo più non informati e non si è creata una cultura del rischio di cui avremmo tanto bisogno oggi».

Quanto costa dimenticare i terremoti?
«Costa moltissimo in vite umane, in perdite di beni materiali e anche immateriali. Costa miliardi di euro ricostruire i luoghi che dovevano essere protetti prima, con cifre assai minori. Sappiamo che i disastri sismici ci colpiscono in media ogni 4-5 anni, sappiamo anche dove potranno accadere i prossimi forti terremoti. È una grande ipoteca sul futuro che, se non noi, pagheranno i figli e i nipoti».

Il sisma bonus e le assicurazioni private possono bastare?
«Il sisma bonus-super bonus non può essere la soluzione del problema sismico del Paese, perché non esprime una strategia complessiva di prevenzione, basata su priorità scientificamente stabilite, lasciando la tutela nelle aree a maggior rischio all'iniziativa dei singoli cittadini con una frammentazione soggettiva di interventi: risponde a interessi professionali ancorché legittimi e può stimolare un'economia edilizia ferma, ma non è un razionale intervento di difesa dai terremoti.

In Italia le assicurazioni non hanno una diffusione tale da poter garantire le ricostruzioni, che pesano come un macigno sulle casse dello Stato, ma soprattutto non tocca alle assicurazioni applicare piani di prevenzione. Stiamo anche oggi rincorrendo i danni dei disastri sismici, non a prevenirli».

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