Cave cavone, storia di fondaci, fiumi segreti e spade nella roccia

Una ruga scolpita nel tempo, budello di carne e pietra nel cuore di Napoli

Cave cavone nel cuore di Napoli
Cave cavone nel cuore di Napoli
di Vittorio Del Tufo
Domenica 22 Ottobre 2023, 10:00
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«La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano

(Italo Calvino, Le città invisibili).

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Cave cavone, acqua malacqua, la vita a strapiombo nel canyon napoletano. Cave cavone, acqua malacqua, case incastrate nella roccia, incollate l'una all'altra come un presepe che s'ostina a vivere. Cave cavone, acqua malacqua, una ruga scolpita dal tempo, budello di carne e pietra nel cuore della città e della nostra memoria. Nacque nella notte dei tempi, era il letto del Sebeto, il fiume caro ai poeti, agli innamorati e agli dèi. Cave cavone, come acqua che scorre, scava e dilava: nei giorni scorsi un abitante illustre di quella strada, Pietro Gargano, memoria storica della città e del giornalismo napoletano, ha mandato alle stampe un delizioso piccolo libro, pubblicato dall'editore Pasquale Langella, vi si raccontano storia e storie di questo antico torrente che s'è fatto strada, e s'innerva verso le alture di San Potito, Pontecorvo, Salvator Rosa e Tarsia, con i suoi fondaci che sono squarci di luce e vita nel buio, con i suoi antichi casini di caccia dove un re presuntuoso, Alfonso II, aveva fatto costruire una delle sue ville di delizia, la Conigliera.

Frammenti di memoria. Che rivivono nelle pagine di Gargano: «Anticamente nel Cavone si incrociavano almeno tre acquedotti: quello della Bolla, opera dei Greci nel IV secolo prima di Cristo, che interessava piazza Dante; il Serino, vicino ai Quartieri Spagnoli, costruito durante l'impero di Augusto; quello seicentesco del Carmignano». La scoperta dei pozzi degli acquedotti in via Correra, narrata dallo speleologo Clemente Esposito, avvenne in seguito al crollo di un costone tufaceo causato da piogge torrenziali.

Morirono due anziane donne. Il Cavone, ha sostenuto Esposito, potrebbe essere l'impluvio del letto del leggendario fiume Sebeto, che scorreva pure nell'area dell'attuale piazza Dante. Poi divenne luogo di estrazione del tufo. «Si moltiplicarono i fondi per il deposito delle merci, i fondachi senza luce che oggi sono anguste case».

La mitica Conigliera, una delle delizie alfonsine - le altre erano il Poggio Reale, la Duchesca e la Ferrantina, nella zona dell'attuale liceo Umberto, a Chiaia - si estendeva fino alla strada dell'Infrescata, cioè via Salvator Rosa. Qualche traccia della prestigiosa dimora sopravvive in via Luperano 7. Alla morte di re Alfonso, racconta Gargano, la proprietà passò ai Muscettola dei principi di Leporano. Il cortile in piperno con arcate restò intatto, ma fu aggiunta una conchiglia con al centro lo stemma dei Muscettola, poi eliminato agli inizi del Novecento. Infine, venne chiuso anche il cortile, per ospitare botteghe. «Restano nicchie che forse ospitavano busti e ornamenti. La fabbrica quattrocentesca a due livelli è stata di continuo ritoccata dai proprietari che si sono susseguiti».

Per la toponomastica ufficiale il Cavone porta il nome di via Francesco Saverio Correra, giurista vissuto nell'Ottocento. Morto nel 1895, Correra è immortalato in un mezzo busto custodito a Castel Capuano. Giovanni Porzio, altro gigante del Foro partenopeo, lo descrisse come «un vecchio, dalle cui spalle cadeva una logora palandrana, in una cravatta nera il collo sottile, sul quale si inclinava e tremava, lievemente, una testa bislunga ed arguta, una faccia assorbita, impassibile, con le tracce di un sorriso ambiguo e sagace dentro le rughe. E la folla lo seguiva ansiosa di ascoltare l'esile voce, infaticabile evocatrice di remote dottrine e di testo obliati». 

Da sempre, annota Gargano, i popolani hanno abitato la parte alta, mentre borghesi e professionisti occupano i palazzi più in basso. Il confine è costituito da un'edicola con la statua di Sant'Anna, protettrice delle partorienti. Nella parte bassa del Cavone ebbero casa molti maestri del diritto. Un figlio illustre di questa strada fu Armando Diaz, il generalissimo della prima guerra mondiale, che nacque al civico 22. Dopo la disfatta di Caporetto, in sostituzione di Luigi Cadorna, al comando supremo delle forze armate italiane venne chiamato questo napoletano del Cavone «piccolo di statura, occhialuto, con un aspetto più da professore che da soldato», come scriverà Indro Montanelli. Diaz riuscì nella difficile impresa di risollevare le sorti dell'esercito italiano avvalendosi del prezioso contributo di una canzone, quella Leggenda del Piave che era stata composta nel luglio 1918, durante la fase finale del conflitto, da un altro napoletano, E.A. Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta.

Ricorda Pietro Gargano che il primo numero del Roma, il più antico quotidiano napoletano tuttora in edicola, uscì il 22 agosto 1862 dalla piccola tipografia di Diodato Lioy, in vico Luperano 7. Ma dal 1860 c'era già Il Pungolo, di dimensioni ridotte, seimila copie, distribuito di sera. In seguito, mercoledì 16 marzo 1892 apparve la prima copia de Il Mattino. Ai primi del Novecento il Cavone era un prolungamento commerciale del largo Mercatello, l'attuale piazza Dante, che fin dal 1588 ospitava uno dei due mercati cittadini. A partire dal Seicento arrivarono le case, sempre più numerose, ma nemmeno una chiesa. Più tardi mutò più volte la struttura sociale del vicolo. Nell'autunno del 1943, dopo la fuga dei tedeschi in conseguenza delle Quattro Giornate di lotta, i popolani cercarono riparo in altri quartieri.

Nobili e borghesi si trasferirono nelle proprietà in campagna, ritenute più protette dai bombardamenti. Infine, in prossimità della svolta del XXI secolo, sono arrivati gli orientali, specialmente dallo Sri Lanka, l'ex Ceylon. Gran lavoratori, di buon carattere, si sono ambientati rapidamente e gestiscono drogherie e altri negozi. Il Cavone è un luogo della nostra memoria, è la Napoli multietnica e tollerante dove la regista Paola Randi, dieci anni fa, girò le scene del film Into Paradiso e dove viveva con passo svelto, anch'egli sul ciglio di uno strapiombo, il «buono guaglione» che Pino Daniele descrisse in uno dei suoi pezzi più belli, alla fine degli anni 70.

E mi chiamerò Teresa
Scenderò a far la spesa
Me facce crescere e capille
E me metto e tacchi a spillo...

“Teresa” era il trans Giannina, che vendeva sigarette, tabacco e cartine. È morta nel giugno del 2022. Mentre lo stretto vico Giovanni Brombeis, alle pendici del Cavone, negli anni Settanta vide passare, ogni mattina, il famoso Fortunato, venditore ambulante di taralli e pagnottielli. Aveva un carretto che si era costruito da sé, montando un cesto di vimini sul telaio di un carrozzino da neonato, con davanti una piccola insegna: «La Ditta Fortunato resta chiusa il lunedì». La sua cantilema, «Furtunato tene 'a rrobba bella, 'nzogna 'nzo», fu ripresa da Pino Daniele in una canzone famosa. Il cantautore frequentava via Correra, culla della sua famiglia. Il suo cognome era Bisaccia. I taralli, racconta Pietro, erano saporiti, croccanti, sugna e pepe, tante mandorle ben tostate. Costavano dieci lire. «Lui era anziano, minuto, grassoccio, gambe arcuate a taralluccio. Nelle buone stagioni indossava una maglietta bianca a mezze maniche e calzava un berretto bianco. D'inverno usava un cappelluccio di lana multicolore, una sbrindellata giacchetta, una sciarpa di lana variopinta. Morì nel 1995». 

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