Porta di Santa Sofia, in quell'acquedotto c'è il sangue della città

Dal mitico Belisario a re Alfonso d'Aragona, l'antico impianto greco romano custodisce la memoria di atroci battaglie

L'antico acquedotto greco romano
L'antico acquedotto greco romano
di Vittorio Del Tufo
Domenica 8 Ottobre 2023, 10:00
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«Lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente»

(La guerra di Piero, Fabrizio De Andrè)

* * *

Napoli, anno 536. Dopo aver conquistato la Sicilia, l'invincibile Belisario, magister militum dell'imperatore Giustiniano, si prepara ad invadere anche la penisola per spazzare via l'esercito dei Goti. Risale attraverso la Calabria senza incontrare alcuna resistenza, poi avanza rapidamente verso Napoli convinto di mettersela in tasca senza problemi. Gli abitanti, infatti, non fanno mistero di disprezzare tanto i Goti quanto i loro discutibili metodi di governo. «Sarà una passeggiata», confida il generalissimo ai suoi uomini. E invece l'assedio dura venti interminabili giorni, durante i quali Belisario - fermo con i suoi soldati nei valloni tra piazza Dante e piazza Cavour - è sul punto di rinunciare all'impresa. Ma poi accade un fatto nuovo, destinato a capovolgere le sorti di quell'assedio e della storia di Napoli. Un soldato suggerisce al grande condottiero che per entrare in città basta aprire un passaggio attraverso il percorso dell'acquedotto. È il percorso del mitico condotto greco e poi romano, completamente sotterraneo, che parte dalle sorgenti della Bolla, ai piedi del Vesuvio (nel territorio dell'attuale Volla) e penetra in città attraverso Porta Capuana, diramandosi poi in più rami. Belisario lo fa tagliare, secondo una tecnica militare già collaudata in passato per interrompere l'approvvigionamento d'acqua alle città assediate. Così, seguendo il tracciato dell'acquedotto, gli uomini di Belisario riescono a entrare in città attraverso la Porta di Santa Sofia, in via San Giovanni a Carbonara. Dopo aver liquidato le guardie, colte di sorpresa, aprono finalmente la strada al reggimento di cavalleria appostato nella grotta degli Sportiglioni, a Capodichino.

 

Stacco, sportiamo le lancette in avanti di quasi mille anni.

Napoli, 1442. Le truppe di Alfonso d'Aragona detto il Magnanimo utilizzano lo stesso stratagemma di Belisario per invadere a loro volta la città. In questo caso è il tradimento di un pozzaro, Aniello Ferraro, a condurre i soldati aragonesi attraverso il canale. Che passava, ancora una volta, sotto Porta Santa Sofia. Il pozzaro, come nelle migliori spy story, era stato contattato dal comandante delle truppe di Alfonso, Diomede Carafa. Costui era un uomo scaltro e spregiudicato: conosceva, come il suo capo, la leggenda di Belisario e dell'acquedotto e si mise alla ricerca degli accessi segreti per penetrare nella città assediata. Aniello Ferraro, il pozzaro traditore, lo conduce nel vascio di tale mastro Citiello cosetore, che con la moglie donna Ciccarella e i figli abitava proprio di fronte alla Porta di Santa Sofia. I soldati catalani percorrono così il passaggio segreto di notte e sorprendono la città sprofondata nel sonno (vedi anche Uovo di Virgilio del 24/06/2016). 

A questo, dunque, servono gli acquedotti. Ad abbeverare gli uomini, ma anche a conquistare le città. Come gli uomini - e le città, che rischiano di smarrirla - anche l'acqua possiede una sua memoria, studiata a lungo da generazioni di chimici, di geologi, di speleologi urbani. La memoria dell'acqua è la sua proprietà di mantenere un "ricordo" delle sostanze con cui è venuta in contatto. A Napoli, città dalla storia ultramillenaria, questa memoria è intimamente connessa alla grande epopea degli acquedotti. Le acque sorgive entrarono a far parte della vita dei napoletani fin dal periodo greco. Il popolo le divinizzò attribuendo ad esse, in alcuni casi, poteri magici. In epoca romana la città si arricchì di impianti idrici, che svolsero l'importante compito di portare a Napoli l'acqua da sorgenti lontane o dai fiumi. Il grande protagonista di questa ultramillenaria storia è l'acqua. Belisario, Alfonso d'Aragona, il pozzaro Aniello e mastro Citiello cosetore sono solo dei comprimari.

Il più antico acquedotto napoletano è proprio quello della Bolla: ha fornito l'acqua alla città per più di duemila anni. Mitico condotto greco e poi romano, completamente sotterraneo, partiva dalle pendici del Vesuvio e penetrava in città attraverso Porta Capuana, diramandosi poi in più rami e distribuendo l'acqua dal Mercato alla Dogana, dall'Annunziata a Cappella Vecchia.

Il cunicolo segnalato da don Aniello, il pozzaro traditore - e utilizzato da Belisario prima, e da Alfonso d'Aragona poi, per entrare in città - si trovava tra la chiesa di Santa Sofia e quella dei Santi Apostoli, nel cuore di una certa Napoli spettacolare e magica, ricca di fascino e di una nobiltà che oggi rivive solo a tratti, soffocata dal degrado. Porta Sofia, l'antico accesso alla città, era chiamata anche Porta Carbonara, perché sorgeva nei pressi del luogo (il carbonarius, l'attuale via Carbonara) nel quale venivano versati ed inceneriti i rifiuti raccolti all'interno della cinta urbana. Spostata più volte per soddisfare i capricci o le esigenze di difesa dei sovrani di turno, Porta Santa Sofia fu abbattuta nel 1537, quando don Pedro di Toledo promosse l'allargamento delle mura ad occidente. Si costruì poi un ponte per superare il fossato.

Sono tre gli antichi acquedotti che, per secoli, hanno rifornito Napoli di acqua dolce. Con la Bolla, che ha fornito l'acqua alla popolazione per più di due millenni, hanno prestato più che onorevole servizio l'Augusteo (o Serino), di origine imperiale, e il Carmignano, del 1600. Napoli, com'è noto, è una città partorita dalle sue stesse viscere: quasi tutti i palazzi costruiti fino alla seconda metà dell'Ottocento poggiavano sul sottosuolo dove era stato estratto il tufo per la costruzione. Proprio il tufo giallo estratto dal sottosuolo, sin dai tempi di Neapolis, ha portato alla formazione delle prime cisterne. Furono i greci, talentuosi e lungimiranti, a collegare le cisterne attraverso una rete di cunicoli che andavano a prelevare l'acqua dalla sorgente alle falde del monte Somma. In seguito i romani ampliarono questo sistema in epoca augustea, creando 400 km di cunicoli e cisterne sotterranee.

La storia della Bolla si incrocia con quella del mitico fiume Sebeto, le cui acque, seppur in parte, furono canalizzate proprio in quell'acquedotto che Guglielmo Melisurgo definì nel 1889 «l'opera più antica e meglio conservata dell'antichità napoletana». L'acquedotto augusteo, altro capolavoro del mondo antico, traeva la sua origine dalla sorgente del Serino, venne costruito in età augustea e per un certo periodo venne attribuito all'imperatore Claudio: da qui i molteplici nomi con cui viene identificato (Serino, Augusteo, Claudio). Durante il viceregno spagnolo, nel XVII secolo, l'espansione demografica rese necessario l'ampliamento della rete idrica e ci pensò un privato, il conte di Carmignano, il quale a sue spese costruì un nuovo acquedotto fatto sostanzialmente da cunicoli, che, in alcuni tratti, correva superiormente a quello greco-romano. L'acquedotto della Bolla ha servito amorevolmente la città fino al 1884, quando l'epidemia di colera, che quell'anno fece più di ottomila morti, ne inquinò le acque. Qualche anno più tardi la città sarebbe stata sventrata dal piccone del Risanamento. 

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