«Efebo, salvaci dai Saraceni», una leggenda scavata nel tufo di Capodimonte

Sant'Eframo vecchio: il borgo della memoria

Sant'Eframo vecchio
Sant'Eframo vecchio
di Vittorio Del Tufo
Domenica 23 Aprile 2023, 09:48 - Ultimo agg. 24 Aprile, 08:05
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«Non me ne potevo andare, perché lontano da questa terra sarei stata come gli alberi che tagliano a Natale, quei poveri pini senza radici che durano un po' di tempo e poi muoiono»
(Isabel Allende, La casa degli spiriti)

A valle della collina di Capodimonte, e alle spalle dell'Orto Botanico, ecco Sant'Eframo vecchio con le sue ombre, le sue leggende e le sue memorie, con i tornanti che si aprono all'improvviso in squarci da togliere il fiato, con la sua chiesa fondata nel luogo di un'antica catacomba. Minuscolo borgo che spunta dal passato, lì dove la città non c'era, Sant'Eframo vecchio è una Napoli in miniatura, che ci parla di un tempo di cui si è persa la memoria: un tempo in cui lingue di terra spettacolari e verdi si insinuavano da Capodimonte fin quasi all'attuale via Foria, stregando i nobili, che scelsero di costruirvi le loro case, e i visitatori che amavano passeggiare fuori le mura.

Cuore pulsante della piazza è il convento dei Cappuccini, fondato nel 1530. I frati, guidati da Ludovico da Fossombrone, erano arrivati a Napoli un anno prima, accolti da Maria Longo, la fondatrice dell'ospedale degli Incurabili, dedicato alla cura degli ammalati rifiutati da altri ospedali perché considerati, appunto, incurabili. Fu l'arcivescovo Vincenzo Carafa a consegnare ai frati cappuccini le chiavi di questo luogo magico. Qui sorgeva una chiesa antichissima, ricavata nel tufo. Era stata edificata nel luogo dov'era stato sepolto Sant'Eframo, c'è in realtà si chiamava Efebo e aveva ricoperto la carica di arcivescovo nel III secolo dopo Cristo.

Dal suo sepolcro nacque la catacomba e sulla catacombe sorse la chiesa. «Efebo, salvaci dai Saraceni!». Narra la leggenda che un giorno Eframo-Efebo apparve a un sacerdote e «gli consegnò una verga, colla quale percossi e inseguiti i Saraceni levarono l'assedio alla città» (Gennaro Aspreno Galante, Guida sacra della città di Napoli). Il corpo di Sant'Eframo, inizialmente traslato nella chiesa di Santa Stefania, venne poi riportato nella catacomba e ritrovato nel 1589, assieme a quelli di altri due santi, Massimo e Fortunato.

L'interno presenta un'unica navata con un altare del 1700, con sculture del 1600 e una tela raffigurante Sant'Eframo, San Fortunato e San Massimo attribuito a Giacomo Cestaro.
La zona, immersa nel verde, bagnata da due corsi d'acqua, era perfetta per la vita contemplativa dei Cappuccini. Dopo essere entrati in possesso dell'area, i frati costruirono delle minuscole celle al di sopra della chiesetta ed effettuarono numerosi restauri, innalzando un campanile maiolicato e incanalando le acque che scendevano da Capodimonte, la lava dei Vergini. Con la soppressione degli ordini religiosi, i Cappuccini furono costretti a lasciare l'edificio nel 1865 e l'annesso convento fu acquistato dalle Monache delle Trentatré, che lo restituirono ai frati solo vent'anni dopo. Le antiche catacombe, invece, scoperte solo nel 1931 da padre Antonio Bellucci, grazie a una campagna di scavi che portà alla luce l'intero complesso cimiteriale. E di Sant'Eframo vecchio, delle sue ombre, delle sue leggende, si parlò in tutta Italia.

«Non ci crederete, ma Villa di Donato per noi non esiste! È un lessico estraneo. In famiglia non è mai stato usato. La nostra parola era e sarà sempre Sant'Eframo. Il luogo dei miei ricordi è Sant'Eframo ed era un mondo. Un borgo appartato, con la sua particolarissima pianta trapezoidale, chiusa dal convento cinquecentesco dei Cappuccini e dalla Villa».

Così Patrizia de Mennato, custode delle memorie di famiglia, descrive nel libro 'A casa do' barone - a cura dall'archeologa Rossana Di Poce, dalla giornalista Armida Parisi e della curatrice d'arte contemporanea Chiara Reale - lo storico casino di caccia di Sant'Eframo vecchio: la Villa di Donato, appunto, che sorge in prossimità del convento dei Cappuccini e delle annesse Catacombe. Villa alla quale si accede attraverso un ampio viale, circondato da giardini che conservano l'impianto settecentesco, con pini, magnolie e palme secolari.

Immersa nel "bosco" di Sant'Eframo, la dimora venne trasformata in casino di caccia dai baroni di Donato di Casteldonato. Ancora oggi è conosciuta dagli abitanti della zona come «'a casa do' barone». All'epoca della sua edificazione, intorno agli anni 80 del 700, l'area di Sant'Eframo era un grande slargo tra colline verdi, il convento al centro e poche tenute frazionate, scarsamente abitata e frequentata soltanto dai frati dell'eremo cappuccino. «Un vero paradiso terrestre tra boschi e colline - scrive l'archeologa Rossana Di Poce - che salivano attraverso antichi tracciati verso la Reggia di Capodimonte». Un luogo magico per chi voleva condividere il passatempo preferito di Ferdinando IV: la caccia.

La casa di Sant'Eframo vecchio, rimasta disabitata per circa trent'anni dopo la morte della marchesa Maria, solo recentemente ha recuperato la sua originaria caratteristica di residenza familiare. Gli stessi proprietari hanno affrontato la sfida del recupero conservativo della Villa, rintracciando nelle memorie di famiglia e nei documenti le linee guida dell'intervento. Il loro scopo è stato, infatti, quello di mantenere intatta l'identità della casa, aiutati - in questo appassionato restauro "romantico" - dalla sostanziale unità dell'impianto architettonico che non ha subito, nel tempo, significative modifiche. Il lavoro di recupero ha consentito di restituire all'intero complesso il suo carattere di luogo di svago, di pausa dagli affanni, riconfermando la destinazione originaria, peraltro testimoniata dall'iscrizione presente nel giardino d'inverno, che ripercorre i nomi delle nobili dame che, fin dagli inizi del 700, contribuirono a rendere questa dimora sempre più gradevole. L'ingresso, che si apre sulla corte, è attiguo alla rimessa delle carrozze, nella quale sono stati inseriti - come tracce della memoria - alcuni marmi rinvenuti durante le operazioni di restauro del giardino. Una scala a doppia rampa, che si interrompe per permettere l'accesso al giardino d'inverno, introduce al piano nobile, dove l'ampio salone ed i salotti conservano intatta l'atmosfera dell'epoca. Gli affreschi del periodo di Ferdinando IV - splendidamente conservati e mai restaurati - evocano scene di caccia e di vita campestre attraverso tralci di fiori, voli di uccelli e ghirlande. Altre immagini presentano riferimenti più domestici, ritraendo gli antichi abitanti della casa, dei progettisti che realizzarono la villa e degli artigiani che vi lavorarono. Le specchiere e gli arredi ricordano antichi giochi di luci e di candele.



La casa dei baroni era aperta a tutti: durante la Prima guerra mondiale accolse poveri e disperati. Il casino di caccia ha mantenuto inalterato, per ben tre secoli, lo splendore del periodo borbonico. Oggi Villa di Donato è diventata un contenitore delle arti e della musica: dal 2016 ospita «Live in Villa di Donato», rassegna di musica, teatro e musica da camera che ha riscontrato un grande successo, evento dopo evento. Insomma si pone come un Polo delle Arti e delle Culture: opificio, laboratorio sempre aperto alla ricerca e osservatorio sulle nuove energie creative della città. Nel libro, che rievoca l'epoca d'oro del casino di caccia, le autrici hanno interrogato le mitologie familiari, alla ricerca del tempo trascorso e di quello perduto, rievocando le storie di generazioni passate ma ancora oggi intrecciate indissolubilmente con la storia del borgo di Sant'Eframo vecchio.

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