New York, chef Giuseppe Bruno tra cibo e arte: «Basta sciocchezze sui giovani senza voglia di lavorare»

New York, chef Giuseppe Bruno tra cibo e arte: «Basta sciocchezze sui giovani senza voglia di lavorare»
di Luca Marfé
Domenica 29 Maggio 2022, 18:32
9 Minuti di Lettura

Da Battipaglia con amore. Fino a New York.

Fino al quartiere più chic, fino a una cantina di vini da migliaia di bottiglie e da milioni di dollari, fino a due ristoranti che sono due autentici musei.
Fino a Sistina e Caravaggio, fino allo Chef Giuseppe Bruno.

Un po’ instancabile operaio, sempre al lavoro nella sua cucina impegnata, un po’ intellettuale d’altri tempi, sempre all’apice dei suoi discorsi colti.

Disciplina e passione, piatti e saggezza, cibo e arte.
Questi posti, e quest’uomo: è come se avessero due anime.
Diverse. Ma che si tengono mano nella mano.



Quando è arrivato negli Stati Uniti?
«Sono arrivato negli Stati Uniti alle fine degli anni ’70. Avevo dei parenti che vivevano qui. All’inizio è stata assai dura, perché io in Italia avevo la fortuna di stare bene. Avevo il mio giro di amici, avevo da sempre la mia passione per l’arte. Infatti avevo addirittura una sorta di rifiuto a imparare l’inglese. La situazione è cambiata di colpo quando ho chiesto a mia zia di portarmi per la prima volta a Broadway. Ero con mio fratello, fu uno spettacolo indimenticabile. Ma non conoscevo la lingua e insomma: non capii assolutamente niente. Allora decisi di prendere un appartamento in zona, con la promessa fatta a me stesso di trovare subito un lavoro, così poi da potermi pagare le spese in autonomia e così, finalmente, da potermi mescolare per davvero con tutta quella meraviglia. Occhio, però: a quel tempo, quando sono arrivato negli Stati Uniti, gli americani non avevano nessuna cultura dello stare a tavola. Pure da quel punto di vista lì, è stato tutto un inizio. Non solo per me, ma proprio per un tempo nuovo».

«Un tempo nuovo». Può essere più preciso?
«Un esempio? Mi faceva sorridere il loro impugnare le forchette come fossero delle scope. Per loro i pasti non avevano lo stesso valore che avevano invece per noi. Tant’è vero che nel corso della mia carriera, ho tenuto anche dei corsi sull’educazione dello stare a tavola. Anche per quanto riguarda i cibi e l’abbinamento dei sapori, altro esempio: c’era pomodoro ovunque. E poi c’eravamo io e mio fratello, che arrivavamo dall’Italia, dopo aver fatto tanto di scuola alberghiera, a essere sinceramente più preparati. Anche perché nel corso dei nostri studi c’era capitato di fare stage a Rimini, a Riccione, un po’ ovunque nei posti dove si faceva sul serio. Vede, il bello dell’America è anche questo: poter essere schietti e sinceri, senza temere di apparire presuntosi, senza dover essere votati all’umiltà del volare basso per forza. Poi, certo: tante cazzate le ho fatte pure io. Da giovani è normale, c’è comunque tanto da imparare. Altro esempio ancora: alle volte mi accorgevo di essere talmente tanto veemente nel manifestare la mia passione, che le persone mi trovavano invadente. Ma col passare degli anni, ho trovato la giusta ricetta anche per questo. Il segreto della cucina, ma anche della vita, è l’equilibrio».

Tra cucina e vita, dunque. Sistina e Caravaggio non sono soltanto due ristoranti. Ma sono anche due musei.
«L’arte è sempre stata una mia grandissima passione. Io stesso, sempre fedele al mio parlare diretto, mi definisco un’artista.

E ne ho conosciuti tanti, tantissimi, immensi. A New York ci sono vari musei importanti, in particolare il più importante di tutti, il Metropolitan che è letteralmente a due passi da qui. Spesso insomma, dopo le esposizioni e le mostre, in molti venivano e vengono a mangiare nei miei ristoranti. Così, tra mille altri, sono diventato amico di Sandro Chia, di cui le mie pareti sono piene delle sue opere. Abbinare l’arte e la cucina è stata per me una scelta semplice, paradossalmente quasi banale, senza dubbio istintiva, necessaria, e alla fine vincente. I miei prezzi sono alti, ma questo dipende dal tipo servizio che offro. Andare a mangiare fuori per sfamarsi non ha nessun senso. Ci si sfama a casa. Per me la ristorazione è concepita come un’esperienza, ha l’obbligo intrinseco e tacito di farti emozionare. L’arte è una della mie chiavi. È lei che mi aiuta a creare questa atmosfera unica. È l’arte la mia vera grande alleata».

Anche i prodotti, però. Al di là dell’attorno, veniamo a quello che c’è dentro ai suoi piatti.
«Questo è un altro dei motivi per cui i prezzi dei miei ristoranti sono oggettivamente alti. I prodotti che utilizzo sono tutti rigorosamente italiani e di primissima scelta. Punto. Non ci sono mai state, non ci sono e non ci saranno mai eccezioni in questo senso. Il mio gelato al pistacchio è fatto con il pistacchio di Bronte. Non voglio dire che con altri ingredienti non si possa cucinare bene, però quando tu sai che puoi avere un ingrediente che è il migliore, prendi il migliore, basta. Ancora: così come la pasta, fatta a Gragnano. Oppure l’origano, che faccio arrivare direttamente dalla Calabria. Un mio collega proprietario di un ristorante stellato ha dedicato un suo piatto alla mia insalata. Lui mi dice spesso: “Ma come diavolo fai a farla così buona?”. Quando conosci la ricetta originale, quando hai gli ingredienti buoni, e ci metti dentro il cuore, poi tutto il buono diventa facile. Dopodiché ci sono pure degli aspetti che stanno a metà tra il materiale e il personale, di cui onestamente vado molto fiero. Nel giro degli anni, ho conosciuto un sacco di contadini, molti dei quali italo-americani, che mi hanno aiutato a scegliere il meglio del meglio, dei vegetali o della carne, penso ai conigli e penso agli agnelli. Contadini, allevatori, persone che oggi per me sono come fratelli. Anche al mercato del pesce, dopo 40 e passa anni, pescatori e rivenditori mi conoscono, mi rispettano, mi mettono da parte tutto ciò di cui ho bisogno per impiattare il mio sogno. Sembrano storielle da dare in pasto alla stampa, e invece è vita vera, non è mica facile, ci vuole pazienza, e tempo appunto, per stabilire determinati rapporti, relazioni che non succedono da un giorno all’altro. Certo, uno magari si può anche stufare di tutto questo. Si può scegliere un’altra strada, magari più semplice. Ma io no, io non mi sono stufato mai, perché questa strada è la mia, è la mia vita».




I suoi ristoranti si trovano nell’Upper East Side di New York. Un quartiere che è tutto un mondo, che è tutto un mito. Oltre che per la sua cucina e per la sua arte, lei qui è famoso per i suoi clienti, famosissimi, appunto. Chi sono? A quali sfere appartengono?
«La maggior parte dei miei clienti sono persone che possono permettersi di non preoccuparsi in nessun modo del prezzo. Persone adulte, magari anche tra virgolette “in là” con l’età. Molti sono clienti fissi che oramai conosco personalmente. Tra l’altro, io sono specializzato in eventi privati. Ma non accetto più di dieci, quindici persone. A me non interessa fare numeri esagerati. Io voglio poter mettere me stesso in tutti i piatti che cucino. Così se qualcuno dei miei clienti mi chiede una variazione rispetto al menu o comunque un qualcosa di particolare, io posso accontentarlo. Lo faccio con amore. Che altro aggiungere? Vuole dei nomi? Non esagero nel dire che Andy Warhol fosse un mio amico e un altro, che so, è Robert De Niro. Ho cucinato anche per tutti i presidenti. Barack Obama per citarne uno».



Una battuta sulla pandemia, e in parallelo sul lavoro. Com’è andata, come ha gestito le attività?
«Purtroppo, come tutti, siamo stati costretti a chiudere. Ma io il mio lavoro lo faccio con passione: io qui dentro ci sto 15 ore al giorno, 7 giorni a settimana, e il mio staff di circa 60 persone fa a sua volta una media di 10 ore al giorno. Per questo la mia brigata la considero alla stregua della mia famiglia. Anche se non stavamo guadagnando, ho continuato a pagare lo stipendio a tutti, assolutamente per intero. Non sapevamo quanto sarebbe durata, ma sapevamo che prima o poi sarebbe finita. Adesso di questa scelta posso farne apertamente un vanto: sono uno dei pochi ristoranti in città con un team. Tutti sono rimasti, eravamo e siamo una famiglia. Quante sciocchezze che leggo, anche e soprattutto sul fronte italiano, sui giovani e sulla loro presunta mancata voglia di lavorare.
 isogna trattare le persone con rispetto, punto».



Altro motivo di vanto, cambiando completamente argomento, è la sua cantina, fatta di oltre 6000 (seimila!) etichette diverse. Non parliamo di valore e di soldi. Parliamo di vino.
«I vini sono importantissimi. Pasti e vini si completano a vicenda. Se poi pensiamo che il vino era a tavola anche durante l’ultima cena, ci rendiamo conto o no di quanto sia importante?», ride di gusto. «Per me garantire una vasta scelta di vini è fondamentale, ognuno dei miei piatti deve avere il giusto sapore con cui sposarsi. A pensarci, sono le zone in cui si produce un determinato vino i posti giusti dove te lo puoi godere di più. Proprio perché ci sono le giuste pietanze con cui accompagnarlo. Io sono una sorta di fondamentalista, io cambio menu quattro volte all’anno, a seconda delle stagioni. Ripeto forte e chiaro: il vino è fondamentale».

Per concludere, tornando ai giovani, troppo spesso maltrattati: considerata la sua esperienza, un consiglio, una parola di forza e una di coraggio.
«Premesso che io non mi sento all’altezza di dare consigli a nessuno, l’unica cosa che auguro in particolare ai ragazzi è di non smettere mai mai mai di emozionarsi. Leggendo Marco Aurelio ho capito che mi dovevo concentrare sulla mia unicità. E poi la passione, l’amore. L’amore come fosse la tua “metà”, come fosse un fuoco. Bisogna dormirci la notte, tenerlo stretto, volare alto. E dopo aver sognato tanto, risvegliarsi con amore al mattino, e rimettersi a fare sul serio, nel concreto, ogni santo giorno. Il lavoro e il cuore: questo per me è il coraggio, il coraggio di costruirsi la propria vita. A tutti i giovani la auguro con tutto il cuore magnifica».


(Giuseppe Bruno è da sempre impegnato anche nel campo solidale, della beneficienza. In tutti questi decenni, si è battuto in primissima linea per raccogliere fondi a favore della ricerca contro il cancro e dei reduci di guerra vittime di gravi squilibri mentali. In più occasioni, e a vario titolo, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti al riguardo. Riguardo ai quali, però, ha chiesto il massimo riserbo. Sulla falsa riga del bene che si fa… in silenzio)

Ha collaborato Marco Cutillo.
Tutte le foto sono di Luigi Gallo Artist.

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