Bob Marley a San Siro, quando Pino Daniele gli disse: «Bob, si' gruosso»

Bob Marley a San Siro, quando Pino Daniele gli disse: «Bob, si' gruosso»
di Federico Vacalebre
Venerdì 26 Giugno 2020, 10:00 - Ultimo agg. 27 Giugno, 13:23
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Ci sono concerti che ti godi quella notte e poi.. e poi c'è Bob Marley a San Siro. «Il concerto» per antonomasia. A Venditti dettò una canzone, «Cinzia e Piero»: «E lo stadio era pieno... E sì che Milano quel giorno era Jamaica». Al giornalista del Tg3 Paolo Pasi un romanzo: L'estate di Bob Marley, scritto per Tullio Pironti editore nel 2007.

In tanti vedemmo la luce - no, gli spinelli non c'entrano - quella notte delle luci a San Siro, in tanti decidemmo - e mantenemmo presto la parola - che dovevamo andare a Kingston per capire meglio quel suono che ci scuoteva come se ci appartenesse da sempre e che ci faceva cantare d'amore e rivolta, oltre che di una religione che non capivamo, come tutte le religioni, peraltro. Pino Daniele, supporter d'eccezione, guardava lo stadio e si chiedeva se stava sognando: aveva acceso la folla con un assaggio del suo sound in pieno divenire ed era riuscito a tener testa a un pubblico che avrebbe fatto paura a professionisti ben più scafati di quanto lui era allora, Bob era rimasto dietro le quinte a sentire quell'inatteso cocktail di napoletanità, blues e resto del mondo. Qualcuno gli spiegò che cosa significava «Nero a metà», Pino lo salutò alla sua maniera: «Bob si' gruosso», qualcuno tradusse anche quello, il re del reggae sorrise. La leggenda del santo fumatore, per una volta, ci fece sentire meno provincia dell'impero, la mitologia marleyana vuole che quei 100.000 spettatori siano stati il record della sua carriera, ma non contavano i numeri quella notte, ma i corpi di chi era arrivato il giorno prima allo stadio con i sacchi a pelo, le ragazze in bikini, ma anche senza, i capelli (ancora per poco) lunghi al vento, la rivoluzione che da politica diventava personale e quella notte sembrava di averla a portata di mano.



Cinzia e Piero erano partiti da Roma, noi da Napoli, Tony Esposito guardava i ragazzi di tutt'Italia arrivati per vivere quello che resterà agli annali come «il concerto». San Siro non era ancora «la Scala della musica», al tempo al solo nominare il teatro milanese si tiravano fuori gli ortaggi e le uova marce. E lui, Bob, era la dimostrazione che si poteva fare musica anche se nascevi fuori dall'impero angloamericano. E lui, Pino, «'o jammone», lo guardava come un esempio, la sua strada era appena iniziata, il reggae sarebbe entrato nella sua musica come tante influenze arrivate dal mondo: il blues e il rock dei «conquistatori» a stelle e strisce, certo, ma anche quel suono in levare, e poi i profumi e i ritmi d'Africa e Brasile, di popoli e terre meno ricche e potenti, ma più vicine alla sua per spirito e filosofia di vivere.

«Bob si' gruosso» disse Pino presentandosi a Bob, e pensando anche lui di aver capito quella notte qualcosa di più di quel mestiere che si stava inventando. Eravamo in centomila, la leggenda dice che un anno dopo, il 19 settembre 1981, per lui e il suo supergruppo saremmo stati in 200.000 in piazza del Plebiscito, senza biglietto certo, ma in fondo anche quella volta a Milano pagammo in pochi.

Ma il biglietto l'abbiamo conservato, come si fa con le cose che contano. 

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