Paolino Jannacci, Qualcosa da ascoltare: perché ci vuole orecchio:

Spuntano tre inediti tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta

Paolino Jannacci
Paolino Jannacci
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Venerdì 17 Novembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 18 Novembre, 09:46
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Avete presente il processo ri-creativo dei finti Beatles di «Now and then»? Beh, dimenticatelo. «Anche perché nessuna intelligenza artificiale può ricreare mio padre», sorride Paolino Jannacci, che ormai ha 51 anni, e dovremmo smettere di chiamarlo Paolino, artefice di «Enzo Jannacci - Qualcosa da ascoltare - tra inediti e rarità» (Ala Bianca): il titolo dice tutto, anzi no, perché il disco si apre con il primissimo provino - «voce e piano, ripuliti, quanto si vuole, dalla moderna tecnologia, ma basta, con lui l'Ai non avrebbe nemmeno toccato palla» - di «El purtava i scarp de tennis», emozionante, più scabrosa che mai nella sua malinconica allegria, «e poi papà diceva sempre che quella era la canzone che lo rappresentava di più», ricorda Paolino, pardon Paolo.

È stato lui, a voler chiudere così il cerchio di questo decennale jannacciano. Enzo, caposcuola assoluto (nella canzone d'autore, nel rock and roll, nel cabaret) troppo spesso dimenticato, se n'è andato il 29 marzo del 2013. Paolo gli ha dedicato prima un bel libro diviso con Enzo Gentile (Ecco tutto qui, Hoepli), poi il docufilm di Giorgio Verdelli («Vengo anch'io»), ora questo disco, che esce insieme ad un volume fotografico di Guido Harari (Jannacci arrenditi! Rizzoli), dopo l'omaggio al teatro Ariston di Sanremo del Premio Tenco. 

«Da tempo ho digitalizzato tutto l'archivio di casa, dopo aver scoperto registrazioni, spesso artigianali, persino casalinghe con il Geloso.

Toni Verona di Ala Bianca mi ha spinto a pubblicarle, le ha scelte con me», racconta il figlio d'arte.

Siamo tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta. Tra «L'ombra», «Soldato Nencini» e una versione live con band di «Les feuilles mortes», spuntano tre inediti: il romanticismo ingenuo di «Con le mani sopra il viso», le riflessioni buffe di «Il vestito dell'altro ieri», il dark humour di «Non posso sporcarmi il vestito» («Son rimasto tanto male quando ho letto sul giornale che eri morta prematuramente senza dire niente. Ma che sei andata a fare sotto le ruote della motrice, avresti dovuto sapere che potevi anche morire»), «Il vestito dell'altro ieri».

Il Jannacci feroce, quello pudico, quello che non riusciva a non strapazzare un pianoforte pensando al suo mito Becaud: sono tutti qui, in nuce. E poi sviluppati, perché metà disco, il secondo lato, è un live, registrato nel 1966 all'Intra's di Milano, purissimo, demenzialissimo, surrealissimo, jazzissimo, cabarettissimo, anche con la complicità autorale di Dario Fo («La luna è una lampadina» e «Un foruncolo»). «Andava a Rogoredo», «E l'era tardi», «Faceva il palo», «Sfiorisci bel fiore», «Il primo furto» sono perle antiche quanto preziose, testimonianze di un canto libero, di una narrazione davvero vicina agli ultimi perché immersa nel tempo in cui sono nate, attente alle cronache minime più che alle dichiarazioni ideologiche. Fanno male i piedi, oltre che il cuore e il mondo, ai personaggi di quelle canzoni, personaggi che viaggiano in tram, bevono in osteria, fanno l'amore dove capita. L'ironia jannacciana è un esorcismo, insieme sale e balsamo sulle ferite di una Milano che stava sparendo, che non c'è più: «Quando andai a “Canzonissima”, uno fece: Oddio Jannacci, un'altra canzone sui morti di fame», ricordava lui. «Io mica lo faccio apposta. Io sono cresciuto nella periferia più popolare di Milano, a due passi dall'Ortica. Mica potevo mettermi a fare canzoni sui ricchi. Io sono stato subito diverso. Nessuno si occupava dei problemi della gente. Vedevo mio padre faticare e da lì viene il mio lato comico: il sorriso del povero. Che non è mai vero, è un sorriso abbozzato». 

Negli archivi ci sono ancora inediti, sorprese come «Il tassì» («nel testo, tra le cose che rimanevano nella macchina c'era anche una cinghia dei pantaloni, sparita poi autocensura, visto il concetto di decenza di quel periodo»), ma «alcune sono troppo intime, ci sono anche io, c'è lui che canta a me “E la vita, la vita”... Non c'è ancora abbastanza distacco emotivo per riprenderle in mano». Però Paolone, ecco sì, Paolone, lo merita, continuerà a portare in giro il repertorio di papà, ma ha anche finito il suo nuovo album: «Cose da dire ne avrei, un po' cronachistiche ed un po' di critica, ma... vediamo se trovo il modo di farlo uscire questo disco, di non farlo annegare nella rete dopo due giorni di finto entusiasmo». 

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