Capone, dalle bombe ai Bongattoli:
qui se puoi devi finanziare il rione

Capone, dalle bombe ai Bongattoli: qui se puoi devi finanziare il rione
di Francesca Cicatelli
Domenica 7 Maggio 2017, 10:59 - Ultimo agg. 15:54
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Lascia che sia la vita, lascia fare a lei, Maurizio è dall'altro capo del telefono, è notte fonda e stringe la mano della compagna mentre si racconta al di là di una cornetta. Tra i pionieri della ecomusic mondiale con i BungtBangt, Maurizio Capone è uno scroscio di pensieri immacolati perché sempre in continua trasformazione e contaminazione. E fa proseliti. Sta coinvolgendo giovani leve nel suo nuovo progetto.

Infatti è iniziato al Teatro Tram (ex Cabaret Port'Alba) il laboratorio, prodotto dal Napoli Teatro Festival Italia, sulla costruzione e l'utilizzo di strumenti realizzati con materiali riciclati in vista del Mozzarella _N_i_g_g_a_ lab che si svolgerà fino al 29 giugno tra la Sala Assoli ed il teatro Tram culminando nello spettacolo dal titolo "Mozzarella _N_i_g_g_a_ Urban Musical", previsto per il 30 giugno in piazza del Gesù: i partecipanti - quindici tra musicisti professionisti e non, di cui tre donne - sono stati, tra l'altro, sul palco del Primo Maggio di Napoli in Piazza Dante.

Sulla falsariga del laboratorio del 2000 torna la formazione di base dei BungtBangt, arricchita  a distanza di 17 anni dalla forza delle canzoni: ai testi al repertorio performativo del laboratorio originario, infatti, si aggiungono i brani tratti dal suo ultimo e recente album ricco di nuove suggestioni. L'ultimo strumento si chiama Tastieker, c'è stato qualcuno che ha definito il suo nuovo progetto musicale come una lezione di vita.
 
 
Bongattoli, Yozzù,  Shekeratte. Dove ti piace rimediare gli strumenti e i loro nomi?
«Gli strumenti come tutti i gesti creativi nascono da un'intuizione, alcune volte le idee le lascio decantare sapendo che prima o poi le trasformerò. Ho atteso anni prima di dare suono ad una bottiglia di plastica da mezzo litro. Sapevo che aveva potenziale ma fino ad un paio di anni fa non mi veniva nessuna idea se non banali maracas, finché un giorno ero a mare e in momento di ozio ho avuto idea di batterla sul fondo e aprire il tubo del tappo così è venuto fuori una specie di tamburo parlante».
 
Come accordi gli oggetti e con nuovi strumenti puoi andare oltre le note convenzionali?
«Ogni nota è personale. Non esistono nuove note ma possono nascere nuovi suoni».
 
Sei tu a cercare loro o loro trovano te?
«Uno dei tamburi è un secchio trovato a Bagnoli in un centro sociale: uno che nasce nella munnezza non è detto che sia una munnezza».
  
Secondo te per imparare davvero la musica non bisogna avere maestri?
«Credo che bisogna seguire l'istinto. E io sono stato fortunato perché il mio istinto è molto forte. Da piccolo ho deciso di non avere un solo maestro ma centinaia, dai grandi al bimbo con cui faccio laboratorio. Avevo in mente con intuito e presunzione di vivere sulla mia pelle tutti i rischi che comporta non avere una guida. Se fossi andato al Conservatorio avrei abbandonato la musica perché quel tipo di didattica non mi avrebbe coinvolto. Per esprimere la magia e la musica che la musica ha dobbiamo essere il tramite di questo mistero».
 
Eri un bimbo irrequieto, quando l'iniziazione alla musica?
«Ho cominciato a suonare a sette anni. Il primo gesto musicale è stato il giorno della Befana quando mi regalarono una batteria giocattolo che montai alle 6 di mattina svegliando tutto il palazzo. Poi fino ai 12 anni ho sospeso l'approccio alla musica finché non ho preso a costruire i primi bongattoli. Avevo chiesto dei bonghetti a mio padre ma nell'attesa che esaudisse il mio desiderio, non riuscii ad attendere e mi venne idea di  procurarmi uno strumento con barattoli di marmellata. Quando ho fondato BungtBangt per ricordare quei suoni degli inizi ho intrapreso un percorso di psicoanalisi autonoma facendo riaffiorare le sonorità che da piccolo mi avevano colpito. Ero un bimbo irrequieto, pericoloso, avevo idee creative, ho costruito le bombe a 10 anni con il piccolo chimico. Colpa del giorno in cui sono nato, il 17 gennaio, il giorno di Sant'Antuono, ho un rapporto intenso con il fuoco. Da piccolo poi ero sempre in strada, vivevo in un condominio distinto ma frequentavo gli scugnizzi di vico Cacioppoli con i quali mi prendevo a botte tutti i giorni e che poi sono diventati criminali. La vita te la devi conquistare».
 
I tuoi genitori come hanno accolto le tue scelte audaci?
«Non mi hanno mai bloccato. Ho sempre avuto modo di ricambiare la loro fiducia con impegno e dedizione. Non mi costava perché mi piaceva, è vero, ma non era una didattica convenzionale così spesso mi hanno chiesto invano di frequentare il conservatorio».
 
Quali altre persone senti di ringraziare perché determinanti?
«Anche il condominio: in un momento in cui non si accettano neppure i cani perché pare che la convivenza sia diventata insopportabile, ebbene i miei condomini mi hanno accettato. Un tempo sopra di me viveva un ginecologo che qualche volta mi citofonava con pazienza perché non riusciva a sentire il battito del cuore del feto. Chiaramente ci hanno anche buttato secchiate d'acqua addosso implorandoci di fermare lo strazio acustico».
 
C'è stato un momento in cui non ti sei sentito capito e hai avuto voglia di mollare?
«Un artista vive necessariamente un momento del genere. E' molto delicata questa cosa, dentro di te hai tante cose che funzionano e altre funzionano di meno, dipende da te. Vivo un dualismo tra il musicista e il cantautore. Sono un ricercatore, sono un musicista ma nello stesso tempo scrivo testi. Nei testi non scrivo canzoni d'amore, non nascondo i miei pensieri dietro parole gradevoli. Scrivo cose dure e dirette e questa lotta che non è dentro di me, perché dentro di me è tutto fluido, genera in chi mi ascolta una sorta di scomodità interiore, un subbuglio. E' anche la mia sfida: non sono alla ricerca della pace artistica. Non mi piace l'idea di cristallizzarmi».
 
Hai mai pensato di poter fare altro?
«Quando inizio un percorso è difficile che cambi strada. Vivo di grandi passioni e non amo trovare posizioni comode: scelgo percorsi per andare fino in fondo perché questo significa approfondire e quindi leggere le cose da molti punti di vista. Nel mio percorso ho incluso molte cose personali e sfide con me stesso. E desidero continuare a confrontarmi con i miei limiti».
 
È arrivata la crisi?
«Sono stato in crisi profonda, sono arrivata a toccare il fondo tanto che poi sono ripartito da zero, con Mozzarella _N_i_g_g_a_ho dovuto scavare e l'ho fatto quasi da solo. Otto anni senza fare un disco non sono un caso».
 
Cosa ti procura lo sconforto?
«L'incomprensione, il non essere valorizzato, la parte narcisistica forte in tutti gli artisti, il sentirsi dire che meriterei altro, che dovrei essere in altri ambienti musicali, su una scena musicale internazionale perché in fondo faccio una cosa che è fuori dal normale ma non mi va di utilizzare questo sconforto, non lo voglio utilizzare per scaricare tensioni sugli altri o adagiarmi. Ognuno è artefice della posizione in cui si trova, poi se la società non è pronta ad accogliere alcune avanguardie non è colpa sua. Se non sei sulla stessa frequenza del resto dell'umanità devi accettarlo. Deve essere un tuo sforzo quello di diventare comprensibile a chiunque».
 
La discografia italiana è in affanno?
«Cerca copie di cose esistenti e si è ridotta per colpa del mercato. In Italia devi somigliare a qualcosa per funzionare ed essere prodotto mentre nel mercato anglosassone la novità è apprezzata ed è l'unica a trovare spazio».

Pensi che Napoli sia un limite?
«Napoli non è un limite, è il mio percorso di vita mi ha dato tanto, non riesco a colpevolizzarla, ha gli ingredienti delle cose uniche: contraddizioni e pregi. Certo non sono regali quelli che abbiamo avuto: chi impara in questa città impara pagando un prezzo, così come restare qui, ma se sei un cercatore di vita e vuoi scoprire l'umanità con umiltà allora Napoli aiuta. Napoli è l'unica città nella quale mi sento di vivere in Italia. Critico l'Italia come nazione incapace per limiti storici. La musica italiana pop ha grandi pecche. Non è una critica agli artisti ma ai comunicatori della musica. I comunicatori etichettano e lo fanno anche con Napoli che viene identificata come area musicale che è folclore e non innovazione. A Napoli c'è sempre stata bella musica e dove c'è sottocultura vuol dire che c'è anche cultura. Quindi non è da rifiutare, da scacciare la sottocultura ma neppure da rendere elemento iconico di riconoscimento principale di un genere musicale. La parte criminale e musicale è stata identificata solo nei neomelodici. Gigi D'Alessio non è Napoli e i napoletani lo dicono ma senza polemiche. i miei gusti sono differenti, vado verso lidi di innovazione».

Pino Daniele ha fatto bene ad andar via? Perché magari sradicandosi le sue sonorità sono cambiate. Ne ha perso la sua musica?
«Ci siamo voluti bene, ero piccolo e un omone si è preso cura di me e ha creduto in me producendo i 666. E' dovuto andare via da Napoli perché i napoletani sono faticosi quando sei di estrazione popolare. Se hai fortuna devi diventare il finanziatore di tutto il quartiere e questo non è giusto. Non si poteva pretendere che Pino comprasse barche e ville a tutti. E' stata una fuga da un'oppressione che una certa cultura dà a chi ha successo. La lontananza dalla città è stata una privazione ma lui non ha mai perso il contatto, si informava di ogni respiro della città e ha prodotto tanti giovani artisti: Joe Barbieri, Raiz, Zulù, noi dei 666. E' stato l'artista che ha creato più relazioni con le nuove generazioni. Ed erano gli anni '80. Napoli gli è mancata e si sente anche nella musica: è proprio la contaminazione della città ossia il fatto di viverla a rendere la musica speciale. Certo ci piaceva più il Pino di Nero a metà ma uno non può fare se stesso quando la sua vita cambia. Se cambi vita, persone e lingua, amici ma perché dovresti continuare a fare la fotocopia di te stesso? Tu sei altro. Ho sempre grandi dubbi su quelli che prendono il loro brano famoso e lo riproducono all'infinito. Dopo la perdita mi sono messo ad ascoltarlo ancora con più attenzione, la morte gli ha dato come una seconda vita e ci ha messo di fronte alla sua grandezza».  

Sei credente?
«Autodidatta anche in questo: non credo in un dio ma nello spirito».

Insomma fai tutto da te, c'è una cosa che non fai da solo?
«La mia relazione con Alessia, la mia compagna da quasi trent'anni: è speciale perché resta viva nonostante risalga all'87, con tutti i travagli che si possono immaginare dopo 30 anni insieme».

Il segreto è stato la musica?
«La volontà. E' un po' come la musica: ad un cento punto sei quella cosa là. Io non ho nessuna morale codificata, quello che scelgo lo scelgo in modo amorale, sono stato ad esempio sempre fedele perché apprezzo la persona e non voglio perdere quella specialità. Può sembrare un concetto cristiano ma non è così, anche perché Gesù ha detto cose interessantissime ma non è stato il primo a dirle. L'ovvietà di quello che ha detto è potente proprio perché è semplice, cosa diversa dalla banalità, dall'ovvietà. La compagna ha un ruolo fondamentale nello sviluppo del compagno. con lei mi sento sempre in compagnia anche se sono un solitario silenzioso. La mia concentrazione può pesare ma divento silenzioso quando mi sento bene. Puoi permetterti i silenzi con le persone con le quali stai bene, ho idea che ci sia una comunicazione dei silenzio d'altronde la musica si crea perché c'è silenzio: è la magia attraverso il vuoto tra un suono e l'altro che crea magia. Il silenzio è privato e intimo e quel momento di silenzio non è un'assenza ma è condivisione su un piano emotivo, più profondo della parole anche perché la parola viene fuori dal cervello, quindi è razionale. Mentre il silenzio è metafisico e mette in contatto».

Cosa vorresti per te?
«Per me vorrei più stabilità, mi stimola vivere come in una giungla, anzi se qualcuno credesse nelle vite passate forse potrebbe pensare che ero tra gli indios dell'Amazzonia. Ma vorrei per un attimo stabilità, non per me ma per procurare un momento di ristoro alle persone che mi sono intorno, alla mia famiglia».

Hai un figlio adolescente di 17 anni, tuo figlio soffre la presenza ingombrante di un padre famoso e dall'ego dichiaratamente marcato? E lo indirizzi sul tuo percorso di vita?
«Tradizionalmente nessuno nella mia famiglia ha ripreso il lavoro del padre. Il mio ad esempio vendeva macchine per la lavorazione del legno. Quando ha chiuso mi ha chiesto di continuare la sua attività. Risposi ovviamente di no. E' questa la libertà che sto trasmettendo in parte a mio figlio. Lui ha una grande musicalità, potrebbe essere un grande percussionista. Ma non lo spingo, anche se è venuto a suonare con me da quando era piccolo, ma è venuto spontaneamente e quello che voglio trasmettergli non sono nozioni tecniche o introdurlo ad ambienti professionali o all'acquisizione di caratteristiche meccaniche ma fornirgli ideali ed emozioni. Mi muovo sempre nell'area delle emozioni. Anche perché lavorativamente parlando non sarà mai facile nulla, quindi meglio che scegli qualcosa che gli piace, così nelle difficoltà avrà la motivazione e la forza per non mollare. E poi abbiamo un rapporto aperto senza sconfinare mai nella parità dei ruoli. Ora ha 17 anni e spesso mi porta a casa gli amici che sono anche miei fan ed è bellissimo. Io e mio figlio viviamo un rapporto genitoriale sano».

Non ti avverte come un limite o un parametro a cui tendere?
«Pensavo potesse essere un peso per lui invece io sono molto leggero, ironico, giocherellone quindi non c'è mai stato il fatto di far pesare il mio ruolo o impormi su di lui vietandogli qualcosa. Abbiamo un bel rapporto anche grazie anche ad Alessia».

Come vorresti essere definito?
«Un uomo. Mi piacerebbe essere associato ad Ulisse, a qualcuno che traghetta, un mediatore culturale: sono un estremista che però non apprezza gli estremismi e contemporaneamente sono morbido e accogliente; sono del Vomero ma non sembro del Vomero».  

Pensi che la borghesia abbia un ruolo determinante nel bene e nel male in questa città?
«La borghesia negli anni '80 era quella che faceva musica a Napoli, gente del Vomero. Non dimentichiamo che al Vomero c'era Jessica, il primo centro sociale occupato di Napoli. Ora la borghesia non esiste più, una parte è diventata proletariato e alcuni sono diventati ricchi».

Le nuove generazioni sono migliori delle passate?
«Io amo i giovani di oggi. Mi sento sempre uno di loro con il pregio di avere 53 anni anziché 17. Mi sento parte di questa generazione. E noto anche che c'è una maggiore apertura rispetto alle differenze. Persino i centri sociali, che oggi sono spazi liberati, sono più belli dei centri sociali degli anni '90 perché contengono meno presunzione anche se composti da giovani che a buon ragione devono essere presuntuosi perché sono il futuro, ma hanno fatto passi avanti abbandonando l'ideologia, sono stati capaci di evolversi in una dimensione sociale nuova».

Che studi hai fatto?
«Liceo scientifico Galilei: mi sono fermato in quinta dopo sei anni e rischiavo di frequentarne un settimo. Ho fatto i miei studi paralleli indipendenti in solitudine o in condivisione in contesti atipici. Ho molta difficoltà a leggere, imparo ascoltando le vite degli altri. Il mio liceo era in via Cilea, in un quartiere di destra eravamo quelli di sinistra. Ho avuto vicende di guerriglia urbana, eravamo la spina nel fianco del Sannazaro. Non sono stato uno studente modello ma oggi che faccio l'insegnante a modo mio mi rendo conto che un po' di colpa posso darla ai prof: non penso che sia solo colpa mia se non ho apprezzato Manzoni. Non mi hanno fatto capire che era un grande artista. Mi hanno detto solo che andava studiato perché era letteratura italiana. Nel corso dei laboratori non insegno la teoria musicale ma cerco di far appassionare all'autodisciplina per trovare il modo di suonare».
 

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