Morto Glenn Frey: fondò gli Eagles, stelle del country rock

Glenn Frey. fondatore degli Eagles
Glenn Frey. fondatore degli Eagles
di Federico Vacalebre
Martedì 19 Gennaio 2016, 00:22 - Ultimo agg. 14:07
5 Minuti di Lettura
Dopo Lemmy Killmister, dopo David Bowie, il mondo del rock dà l'addio anche alla chitarra e alla voce di Glenn Frey, ucciso a 67 anni, da complicazioni mediche legate a un'artrite reumatoide e una polmonite, ha annunciato ieri il sito della band che il chitarrista fondò nel 1971, gli Eagles, 150 milioni di dischi venduti nel mondo, tra i record di sempre:  «E' con il cuore pesante che annunciamo la morte del nostro compagno» recitava il testo del comunicato. «Glenn ha combattuto una coraggiosa battaglia nelle ultime settimane, ma purtroppo non ce l'ha fatta», continuava il post, prima di ringraziare a nome della famiglia chi gli è stato accanto e di aggiungere il testo di «It's your world now», scelta spiegata dall'altra metà fondamentale delle Aquile, Don Henley, perché, in fondo, la vita, come il rock, è «essere parte di qualcosa di buono, e lasciarsi qualcosa di buono alle spalle».
A fine anni Sessanta Gram Parsons, prima con i Byrds e poi con i Flying Burrito Brothers, ha appena mostrato come un gruppo country possa suonare rock, o viceversa: invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non cambia. Henley (batteria) e Frey (Boston, 6 novembre 1948) suonano con Linda Ronstadt, Randy Meisner (basso) è uscito dai Poco, Bernie Leadon è pronto per portare banjo e mandolino nella modernità: le Aquile stanno per decollare. Il country rock sta per diventare il suono del nuovo sogno americano, in agguato ci sono anche Crosby Still & Nash, ma al talento visionario quanto scabroso di Parsons, destinato a bruciare giovane, alla disponibilità di mettersi dalla parte dei «tempi che devono cambiare» del trio (e del quartetto con Young), gli Eagles, nell'album d'esordio ('72) che porta il nome della band, oppongono suoni più sognanti e pacificati, dicendo addio alle utopie ecumeniche hippy quanto alla loro esuberanza ribelle in nome di una riscoperta dei valori americani, dell'immaginario dei pionieri e dei fuorilegge dell'epopea western già in nuce in «Witchy woman» e «Take it easy» che rivela il talento della futura star Jackson Browne, autentico mentore autorale di Glenn, che sempre dirà di aver imparato a scrivere da lui. Cori cristallini e spruzzi tex mex per l'uccello quasi simbolo nazionale (è sul dollaro come sulla bandiera): ai critici non basta, al grande pubblico sì, o sarebbe bastato presto, appena messa a punto la ricetta.
Un anno dopo, il concept album «Desperado», forte di classici come «Doolin' Dalton» e «Tequila sunrise», tutti cofirmati da Frey, detta i canoni dell'epopea West Coast, con le malinconie assolate di chitarre che fanno sognare viaggi a base di Lsd innaffiato di tequila: sembra che il nome stesso del gruppo sia nato da un cocktail simile, durante un attraversamento del deserto del Mojave. Il disco è un'ode alle scelleratezze della Dalton Gang contrappuntata dalla riscoperta di strumenti come il dobro e la pedal steel guitar.
«On the border» ('74) porta la chitarra solista di Don Felder e il primo n. 1, «The best of my love». ma è nel '76, con «Hotel California» che gli Eagles si consegnano alla storia del rock. Leadon, il più autenticamente country della combriccola ha lasciato il posto a Joe Walsh, ed alla sua chitarra ben più rock, subito dopo «One of these night» ('75), ma è la storia dell'albergo tra le palme a contare: 16 milioni di copie vendute in America, il doppio nel mondo. La dodici corde di Frey cesella la ballata dell'edonismo pre-reaganiano, racconta la corsa al consumo, ed all'audistruzione, dell'upper class della Città degli Angeli. E' l'apoteosi, ma in qualche modo anche la fine. Frey e Henley sono sempre più padroni degli Eagles, ma liti interne e distrazioni esterne non fanno bene al gruppo, sempre più pop, come conferma «The long run» ('79), con il dimissionario Meisner sostituito da Timoty B. Schmit, che qualche anno prima lo aveva già rimpiazzato nei Poco. L'Lsd ha lasciato il posto a cocaina e eroina, Walsh colleziona il record di stanze d'albergo distrutte, le Aquile per realizzare il disco ci hanno messo due anni e un milione di dollari: il punk è esploso anche in reazione a tutto questo, ma loro non se ne sono accorti. I dinosauri del rock non vogliono andare in pensione, l'lp supera per vendite«In trough the out door» dei Led Zeppelin: sono gli ultimi sussulti di uno rock'n'roll circus pronto alla pensione, ma anche alla riscoperta.
Orge, droghe, alcol e sperperi vengono nascosti dietro il glamour di «Eagles live», ma ormai nemmeno Frey e Henley vanno d'accordo tra di loro e un nuovo greatest hits (il primo è il loro disco più venduto, oltre 42 milioni di copie) non basta. Inizia il periodo delle carriere soliste, che premia più Don di Glenn, che pure firma «No fun aloud» nel 1982 e «The allnighter» nel 1984, facendosi notare di più per le collaborazioni alle colonne sonore, soprattutto grazie a quella «The heat is on» prestata a «Beverly Hills Cop» e piazzando «You belong to the city» nella serie «Miami Vice».
Se lo scioglimento del 1980 non ha il crisma dell'ufficialità, il ritorno con «Hell freezes over» ('94) è sbandierato a più non posso, come il doppio album del trentennale «Long road out of Eden» (2007); banditi e disperati hanno lasciato il posto a businessman che ancora conoscono il mestiere di scrivere belle canzoni, il country rock ora si chiama California rock, ma in California tutto dovrebbe essere possibile e tra quei solchi di sorprese ce ne sono ben poche.
Interrotto e ripreso più volte in nome della nostalgia canaglia e del dio dollaro sul quale campeggia l'Aquila, il volo ormai è interrotto per sempre. O, forse, qualcuno avrà il coraggio di andare in tour con gli Eagles senza Glenn: in fondo sarebbe un'altra storia di tradimento e perdizione da raccontare strafatti seduti sul bordo della piscina dell'hotel California, come quella di Glenn, rocker vissuto tra gli eccessi e morto di polmonite, sapendo almeno di essere stato «parte di qualcosa di buono», lasciandosi «qualcosa di buono alle spalle»: un suono agrodolce, il racconto del tradimento di un sogno, di un'ascesa impossibile verso il sole, l'armonica di voci e chitarre capaci di riempire stadi e incantare generazioni non più ribelle, ma ancora belle. Almeno qualche volta, almeno sorseggiando Tequila con il cuore degli ultimi desperados del rock che fu e che non sarà più.
© RIPRODUZIONE RISERVATA