Gli Who «Live at Leeds»: 50 anni fa il miglior album live di sempre

Gli Who a Leeds, nel 1970
Gli Who a Leeds, nel 1970
di Federico Vacalebre
Lunedì 11 Maggio 2020, 19:58 - Ultimo agg. 20:18
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Le classifiche, si sa, si compilano per discuterne come amici (?) al bar sport. Per qualcuno, ad esempio, «Live at Leeds» degli Who è il miglior album dal vivo di tutti i tempi. Apriti cielo: e «Live at Apollo» di James Brown, «At Folsom prison» di Johnny Cash, «Kick out the jams» degli Mc5, «Bob Dylan live 1966», «Mtv unplugged in New York» dei Nirvana, «Stop making sense» dei Talking Heads, «Jimi plays Monterey» di Hendrix, «The last waltz» con The Band & Company? A meno di non decidere con un duello la supremazia su tutti di Mister Sex Machine, meglio lasciar perdere le classifiche, con una certezza, però: gli Who nel 1970 erano una potenza come poche.

Avevano passato un paio d’anni on the road con le canzoni di «Tommy», opera rock che aveva dato ulteriore corpo all’importanza di quella band di teppisti mod, quel quartetto che condensava la furia, il sadismo e la rabbia di una generazione di cui divennero portavoce involontari. Il 14 febbraio 1970 misero in scena nel refettorio del college di Leeds il meglio di quanto avevano imparato in quei mesi di tour: una poderosa macchina da rock and roll al suo apice. Pete Townshend era un barbaro che brutalizzava sulla sua chitarra la lezione di Link Wray; Roger Daltrey un licantropo della suburbia che ululava alla luna senza mai vederla; Keith Moon un sacerdote voodoo dei tamburi; John Entwistle rintracciava in tutto questo scampoli di melodia sul suo basso.

Il 16 maggio 1970 quel concentrato di adrenalina uscì su vinile, la copertina sembrava, volutamente, quella di un bootleg: mai San Valentino fu così rock. Sei pezzi in tutto, destinati a fare la storia, il resto di quel concerto, più di due terzi dell’esibizione, vide la luce solo nelle riedizioni successive, quella rimasterizzata del 1995 arrivava a 14 brani, quella del quarantennale, dieci anni fa, a 43. Ma in quel lp consumato da puntine d’epoca e ricomprato in ogni supporto possibile per tornare poi a suonarlo nella sua versione vinilica, c’era l’essenza dei quattro selvaggi. «Young man blues» di Mose Allison alternava strofa cantata e riff come a breve avrebbero fatto i Led Zeppelin di «Black dog», «Substitute» distorceva l’originale beat, «Summertime blues» di Eddie Cochran esplodeva come un hard rock ante litteram, «Shackin’ all over» rubava altre esperienze r’n’r a Johnny Kid and the Pirates con una superba prova vocale di Daltrey.

Poi si girava il lato e, su quello B, c’erano «solo» due canzoni, iniziando con «My generation» trasformata da inno dei ribelli senza causa né pausa a una suite di un quarto d’ora in cui sbucavano citazioni da «Tommy» («See me feel me\Listen to you»), «The seeker» e «Naked eye» in un’orgia di riff, in un baccanale rumorista di adrenalinica esaltazione. «Magic bus» durava poco meno della metà, ma la democrazia tra i quattro emergeva persino più evidente, tutti per uno, uno per tutti, come in quell’utopia del rock che peraltro anche la storia successiva degli Who ha contribuito a far tramontare, si pensi alla triste lezione di economia che è alle spalle del nuovo album del gruppo, uscito nel dicembre scorso, «Who», senza nulla da aggiungere ad una leggenda che non ha pari. «Magic bus» era un sabba, con la Diavoletto di Pete usata al meglio, come se la maneggiasse un virtuoso e non un indemoniato, l’armonica di Roger a soffiare sulle fiamme, Keith e John autentica sezione ritmica senza confronti, drumming martellante ribattutto e amplificato dalle corde del basso sino all’apoteosi finale.

La storia non finisce qui, gli analfabeti della suburra diventarono intellettuali da opere rock («Quadrophenia», 1973), sperimentarono un uso moderato dell’elettronica o del miminalismo raga («Baba ‘O Riley»), già nel 1971 aggiunsero meriti al proprio mito grazie a «Who’s next», ma nel 1978 Keith Moon moriva ...

gli strumenti da distruggere in scena diventarono uno show nostalgico, non più un’urgenza-emergenza, un brutale rito dionisiaco, un inutile quanto ineludibile atto di rivolta. Quella notte di San Valentino chi c’era non dimenticherà mai di aver urlato: «Spero di morire prima di diventare vecchio». Parlando della loro generazione, quella degli Who, questo disco porta i suoi 50 anni benissimo, suona come un giovanotto in calore, una ragazzina.

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