Enzo Moscato, sipario chiuso: chi era il poeta che ha rinnovato il teatro del post-Eduardo

Alla Sala Assoli dei "suoi" Quartieri Spagnoli l'ultimo omaggio all'artista scomparso

Enzo Moscato
Enzo Moscato
di Luciano Giannini
Domenica 14 Gennaio 2024, 10:00 - Ultimo agg. 15:32
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In Sala Assoli, nei Quartieri Spagnoli dove era nato prima lui e poi il suo teatro, era previsto fino a oggi il sentito omaggio che Casa del contemporaneo e tutto il mondo del teatro, soprattutto i «suoi» attori», avevano deciso di tributargli: Isa Danieli interprete del suo «Tempo che fu di Scioscia» e la proiezione di un altro suo testo cruciale, «Luparella», con la regia di Giuseppe Bertolucci.

Enzo Moscato non c'è più. Il drammaturgo, regista, attore, cantante che ha rinnovato l'arte teatrale napoletana, l'ha tratta dall'onnivora presenza eduardiana, l'ha tradita, senza rifiutarla, per spingerla verso la modernità, è morto ieri sera nella sua casa, a 75 anni. Malato da tempo, si è andato spegnendo lentamente, con la dignità e nel silenzio dei grandi. Il teatro italiano - e Napoli - gli sono debitori.

Diplomato al liceo classico, laureato in filosofia, Enzo aveva costruito la cultura giusta per intraprendere la formidabile operazione teatrale che ha compiuto in oltre 40 anni di militanza artistica, dove teatro significa non solo rinnovamento dei contenuti ma, soprattutto, della lingua. Come sapientemente notò Fabrizia Ramondino, «il napoletano di Moscato attinge tanto ai bassifondi (ai bassi e ai fondaci) della lingua che alla sua tradizione letteraria più alta, al barocchismo del favolista Basile, ma anche al lirismo dell'antica canzone».

E il «pastiche linguistico» che ne deriva, i giochi di parole, gli spagnolismi, le alchimie verbali e grottesche non si pongono lo scopo di diventare - lui Moscato - più leggibile da tutti o di ottenere credibilità borghese o, ancora, effetti comici. Il suo intento è manifestare l'incontro e lo scontro tra culture.

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Moscato veniva dalla tradizione che tradì, ne salvò il meglio per adeguarla all'epoca nuova e dura, alle rivoluzioni sociali, antropologiche e culturali iniziate col terremoto dell'80. Enzo ne è stato figlio intelligente, a tratti geniale. «L'unico senso possibile è il non senso, il non significato, in questi tempi nei quali la comunicazione e, dunque, il rapporto con gli altri lo ha smarrito», dichiarò l'anno scorso in occasione del suo «Libidine violenta», al San Ferdinando, dimostrando quanto anche nell'ultimo periodo fosse lucido nell'interpretare il periodo storico in cui era immerso. Uomo di teatro e uomo politico, dunque, nell'accezione vasta di una parola che può rivelarsi terribile.

Il suo «Occhi gettati» sul mondo si legge in due accezioni: «Nel senso di sguardo rivolto alla società, ma anche in quella di occhi strappati dalle orbite; forse, un sacrificio cui l'organo della vista si sottopone per permettere all'anima di vedere meglio, come Edipo... o come Santa Lucia». Un fatto è certo: «Non guardiamo altrove, anche se i nostri tempi lo giustificherebbero». Ma vedere che cosa? «Napoli, la mia Napoli, che sempre mi ossessiona... perché è qui che vivo, piango, rido, soffro». Napoli come ossessione e, dunque, come ispirazione dolorosa e senza sbiocchi felici.

La direzione artistica del Mercadante e quella di «Benevento Città Spettacolo» sono tappe importanti, ma entrano giocoforza in ombra di fronte al Moscato drammaturgo, artefice e interprete della propria visione di teatro: «Scannasurice» (1982), «Festa al celeste e nubile santuario» (1984), «Ragazze sole con qualche esperienza» (1985), «Occhi gettati» (1986), «Cartesiana» (1986), «Piece Noire« (1987), «Partitura» (1988), «Little Peach» (1988), «Tiempe sciupate» (1988) sono pietre preziose di un decennio di creatività altissima, che pochi altri autori possono vantare. Il diadema si completa con «Rasoi», regia di Mario Martone, con Toni Servillo in scena, fraterni compagni del viaggio artistico di Enzo, così come Leo de Berardinis. «Il titolo ha un doppio significato: da un lato quello di taglienti frammenti, dall'altro quello dell'opera di sfregiamento della grande cartolina illustrata che è Napoli». La sua ossessione.

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