Martone porta Verdi su Rai3: «La Traviata del Covid-19»

Martone porta Verdi su Rai3: «La Traviata del Covid-19»
Martone porta Verdi su Rai3: «La Traviata del Covid-19»
di Donatella Longobardi
Giovedì 8 Aprile 2021, 10:30 - Ultimo agg. 9 Aprile, 10:00
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«È un periodo in cui bisogna fare quello che si deve, con responsabilità. E guardare fiduciosamente al domani». Mario Martone è a Napoli. Al Mercadante prepara il suo nuovo spettacolo, «Il filo di mezzogiorno», testo forte di una donna rinchiusa in manicomio e salvata dalla psicoanalisi che Ippolita di Majo ha adattato per il teatro dal libro autobiografico di un'autrice dimenticata, Goliarda Sapienza. Avrebbe dovuto debuttare il 14 aprile, ma i teatri sono chiusi a causa della pandemia ed è possibile che si possa vedere in una delle tappe di un tour previsto tra Roma, Torino o Milano. Ieri Rai Movie ha trasmesso il suo film da «Il sindaco del rione Sanità» di Eduardo De Filippo. Dal 19 aprile Rai5 gli dedica la settimana con un ciclo di opere liriche. E domani Raitre manda in onda alle 21.20 in onda la sua attesissima «Traviata» registrata all'Opera di Roma sull'onda del successo del «Barbiere di Siviglia» del dicembre scorso ambientato in una sala vuota. Un'opera-film ma teatrale in tutti gli aspetti che anche qui si ripetono con Daniele Gatti sul podio, Lisette Oropesa nei panni di Violetta affiancata dall'Alfredo di Saimir Pirgu e dal Germont di Roberto Frontali.

Le scene del capolavoro verdiano sono gli spazi del Costanzi con il grande lampadario di cristallo calato fino a sfiorare il pavimento, il palco reale, il foyer. I costumi di Anna Biagiotti sono adattati da suoi abiti precedentemente creati per l'opera. «Perché», spiega il regista napoletano, «il principio di base è quello di utilizzare elementi presenti in teatro». 

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Insomma, Martone, si può parlare di un nuovo format per portare la lirica a casa degli italiani attraverso la tv?
«Innanzitutto è un lavoro del presente. Di questo particolare momento. Un lavoro realizzato in maniera evidente in un teatro vuoto. È come una denuncia: il teatro è vuoto. Ma al tempo stesso è un filo per ricreare il rapporto con gli spettatori».  

Perché così facendo è come riportare il pubblico in sala?
«In un certo senso sì. Il filo, il rapporto con il pubblico, è una cosa importante. Si fa teatro per trasmettere emozioni a chi è presente. E qui è tutto in presa diretta, non c'è playback e non è uno spettacolo filmato concepito per essere scomposto cinematograficamente. Anche se è chiaro che c'è un montaggio».

Le riprese sono durate cinque giorni, con cantanti, coro, orchestra tutto live.
«Una operazione lunga e complessa. Una follia. Ma chi è a casa avrà la sensazione di vivere un'emozione reale. Devo dire che tutto è stato possibile grazie a un teatro coraggioso e intraprendente, all'intuizione del sovrintendente Fuortes e del direttore artistico Vlad con un tocco importante di tecnica napoletana».

Napoletana?
«Fondamentale l'apporto di Rai Cultura e della squadra del centro Rai di Napoli che ha lavorato con professionalità e dedizione al progetto delle riprese, prima per l'opera di Rossini ora con Verdi.

Un lavoro collettivo appassionato e competente. Mi piace che parta da Napoli».

Da Napoli, dal San Carlo, nel 1999 con «Così fan tutte» era partita la sua avventura nella lirica e anche all'epoca la sua fu una intuizione dirompente con i cantanti su una pedana costruita sulla buca...
«Sì, da tempo mi proponevano di firmare una regia d'opera, di fronte a Mozart non potei dire di no. Fu uno choc per la lirica. Ma la proposta con la sua radicalità scenografica fu premiata, Abbado volle l'allestimento a Ferrara e mi si aprirono porte di grandi teatri».

Nei suoi lavori lei ha spesso «aperto» lo spazio scenico alla sala, nello stesso «Don Giovanni», pure al San Carlo, i cantanti entravano e uscivano dalla platea e dai palchi...
«Ho sempre voluto abbattere la quarta parete, quella tra il pubblico e gli attori, sono per un teatro assembleare che veda tutti coinvolti nello stesso spazio... Proprio all'epoca del Don Giovanni con Erwin Schrott accarezzai l'idea di un film-opera e ne parlai con Antonio Pappano, la cosa non andò in porto. Ma allora qualcosa è nato anche se gli spettacoli romani realizzati in epoca di Covid sono stati creati in questo momento e in questa condizione, non so se lo rifarei domani quando tutto, speriamo presto, tornerà normale».

Il «Barbiere» è stato un grande successo, rimandato in onda anche a Capodanno, per un titolo famosissimo come «Traviata» cosa si aspetta?
«Beh, l'opera è un miracolo, la musica sgorga come un fiume in piena... sarebbe bello farla in teatro...».

Ma la sua Violetta?
«La guardo con occhi d'oggi, contemporanei. Una donna consapevole della condizione cui è condannata irrimediabilmente. Anche Alfredo è molto umano nella sua ingenuità, schiavo dell'epoca che lo imprigiona con le assurdità di uno schema maschilista della società, vittima egli stesso».

Oropesa e Pirgu sono due cantanti-attori.
«Con Pirgu avevo lavorato anni fa al Così fan tutte con Abbado, è stato bello ritrovarsi. Con il soprano americano proprio in questi giorni dovevamo fare Rigoletto alla Scala, spero si possa recuperare».

Sono molti i progetti saltati col Covid?
«C'erano Rigoletto e Fedora alla Scala. Al San Carlo spero di tornare in dicembre con l'annunciato Otello con Jonas Kaufmann e Maria Agresta. Nel frattempo ho finito il film su Scarpetta Qui rido io, si aspetta che le sale riaprano...».

E per la prosa aspetta con Goliarda Sapienza...
«Già... Il Mercadante, come altri teatri più responsabili, ha portato avanti la politica meritoria di sostenere le produzioni facendo lavorare tutti: attori, tecnici, scenografi. Questo è lavoro concreto. Il teatro non è un passatempo. È economia, industria dello spettacolo. Ma è contemporaneamente uno degli elementi fondanti della società, un rito assembleare di persone che si ritrovano a farsi domande. Per questo è importante lavorare e credere che ci possa essere un dopo».

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