Don Peppe Diana, Alessandro Preziosi: «Quell’intensa scena finale non ho voluto più vederla»

L'attore: «Rapito dalla figura di quest’uomo capace di infondere forza e fiducia nella sua gente»

Preziosi nei panni di don Diana
Preziosi nei panni di don Diana
di Titta Fiore
Domenica 17 Marzo 2024, 08:07 - Ultimo agg. 16:10
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«Ricordo ancora l’anteprima che facemmo nell’aula dei gruppi parlamentari alla Camera e l’emozione di mio padre, che alla fine del film si alzò in piedi commosso. Ricordo che sulle ultime scene, pochi istanti prima che il killer sparasse a don Giuseppe Diana, il mio personaggio, uscii dall’aula: sentivo di non poter reggere la tensione, era troppo forte l’empatia con quell’uomo che da lì a poco sarebbe andato incontro al martirio. Con coraggio, consapevolmente. Era il 2014, dieci anni fa, e ricordo tutto come se fosse ora. Ma quel finale non l’ho visto mai». Nei panni del parroco anti-camorra di Casal di Principe ucciso dai clan con cinque colpi di pistola il 19 marzo del 1994, mentre si preparava a celebrare messa nella chiesa di San Nicola di Bari, Alessandro Preziosi è stato il protagonista della miniserie «Per amore del mio popolo», diretta da Antonio Frazzi e andata in onda su Raiuno con grande successo di ascolti nel ventennale dell’assassinio del sacerdote. «È stato il primo di una lunga serie di lavori che mi hanno riconciliato con la mia napoletanità», dice l’attore, «in quell’occasione ho potuto toccare con mano l'estremo valore del sacrificio fatto da una persona per la sua comunità».

Chi è per lei don Giuseppe Diana?

«Un uomo molto potente. Nel senso che è stato capace di infondere negli altri la fiducia. Don Diana ha dato alla gente la possibilità di fidarsi delle proprie capacità e lo ha fatto spendendosi in prima persona, ”mettendosi in mezzo” con il corpo, i gesti. Il suo è stato un sacrificio cosciente e “il suo popolo in cammino” ne ha colto tutta l’umana profondità».

Come si è avvicinato alla sua storia?

«Non abbiamo avuto bisogno di ricorrere ad alcun artificio narrativo, i testimoni oculari ci hanno raccontato chi era, come agiva, qual era il suo rapporto con i tanti giovani tolti dalla strada. Don Diana ha trasformato in atto le parole del Vangelo e ci ha mostrato cosa significhi occuparsi davvero degli umili».

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I primi testimoni sono stati, naturalmente, i familiari.

«Certo, ho parlato a lungo con la madre e con i fratelli. Mi hanno accolto con semplicità, da persone risolte, consapevoli che il loro lutto non sarebbe finito mai. Mi colpiva che parlassero di don Peppe come di una luce ancora accesa. Per la famiglia e per gli amici era un sole mai tramontato. Questo sentimento mi ha aiutato nella costruzione del personaggio. Non servivano grandi trasformazioni, ho cambiato verso alla riga dei capelli, sono ingrassato un po’, ma soprattutto ho mutuato dalle loro espressioni l’essenziale per interpretarlo. Per chi fa il mio mestiere questi incontri rappresentano un vero e proprio dono».

La miniserie fu girata nei luoghi in cui don Diana viveva e operava, tra Casal di Principe, Frignano, Casapulla e Casaluce. Come andarono le riprese?

«Era la prima volta che una fiction si svolgeva quasi interamente in quei territori, a Frignano sembrava stesse passando il Giro d’Italia, c’era la stessa curiosità, la stessa pressione mediatica. Tant’è che io, anche per fare duecento metri, ero costretto a salire su un van… Solo un giornalaio mi parlò di don Giuseppe Diana, della sua allegria e del suo interesse per i fatti di cronaca. Mi disse che voleva essere sempre informato, era uno che si indignava. Penso che il suo attivismo coraggioso sia stato una sorta di portale, un “transito“ verso una maniera diversa di leggere la realtà. Don Diana non si nascondeva né si girava dall’altra parte, come se la cosa non lo riguardasse. Interpretandolo ho sentito la responsabilità di trascendere da me stesso e ho scelto la chiave dell’immedesimazione totale. Non per semplice mestiere, sentivo che non si poteva fare diversamente».

Che cosa resta, oggi, della sua figura?

«Una memoria civile. Don Diana è l’uomo di chiesa toccato dalla grazia della fede nella vita eterna che porta alle estreme conseguenze le sue convinzioni. Il messaggio più importante che ci lascia, a mio parere, è il perdono per le persone che lo avrebbero ammazzato. Lui conosceva il suo destino e gli è andato incontro compiutamente. Mi piace credere che abbia offerto la sua vita come prova tangibile dell’amore che aveva per il prossimo. Mi commuovo pensando alla sua figura, perché non mi sento all’altezza. Ma questa tristezza è, al tempo stesso, una scintilla, una speranza di dignità».

Don Diana non è il solo uomo di fede che ha interpretato, nella sua carriera ha approfondito anche le personalità di Sant’Agostino e San Filippo Neri. Cosa l’avvicina alla spiritualità di questi ruoli?

«Forse la mia incertezza. Ognuno porta a spasso la propria carcassa in un determinato modo. E io credo di farlo con una certa umanità».