Enrico Palandri, sette finestre sul mondo oltre le sorgenti del Nilo

«Ogni pagina scritta è quindi rivolta al futuro, alla possibilità di abitare un tempo che viene»

Enrico Palandri
Enrico Palandri
di Generoso Picone
Giovedì 20 Aprile 2023, 07:00
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«Come facciamo a capire quello che non abbiamo mai visto? Perché vogliamo andare a vedere un po' più in là?»: non paia azzardato, ma è davvero congruo partire da due tra i tanti interrogativi che Carlo Rovelli pone nel suo Buchi bianchi, il referto delle ulteriori esplorazioni nel territorio popolato dalla meraviglia delle entità spazio-temporali, per misurarsi con i sette capitoli che compongono Sette finestre, la raccolta di saggi di Enrico Palandri che ha per tema l'atto della scrittura (Bompiani, pagine 137, euro 13).

Questo non soltanto perché Rovelli e Palandri provengono dallo stesso ceppo generazionale entrambi nati nel 1956 - e da una comune esperienza vissuta nella Bologna del '77: ma perché a distanza di 46 anni da quell'aprile i tragitti che separatamente hanno compiuto tra il Canada e l'Inghilterra nella fisica quantistica di Rovelli e nella letteratura comparata di Palandri, oggi si ricongiungono nell'affermazione di uno dei tratti caratterizzanti della stagione di allora: la tensione a intraprendere itinerari verso mete non prefissate, la volontà di investire passione e intelligenza in traiettorie magari disordinate nella trasversalità che intreccia i campi senza porsi obiettivi per la semplice ragione che non possono essercene ma, al contrario, ogni tappa inevitabilmente rimanda a una prossima.

Del resto, spiega Rovelli a proposito del suo testo appena pubblicato da Adelphi, «la scienza è questo: fare un viaggio con la mente per andare dove non siamo ancora stati. Un viaggio che è un percorso scientifico ma che si intreccia con un'avventura umana e di pensieri che vengono dalle mie letture di filosofia, di letteratura e dalla curiosità di sempre». E Palandri in Sette finestre, a conferma: «Scrivere romanzi, poesie, saggi o articoli è simile al desiderio di volare, frustrato dal non avere le ali e non essere un uccello. Ci si apre a questioni grandi e piccole, si inseguono personaggi e idee, si corre a volte in giro per il mondo ma alla fine si è sempre a un tavolino, chiusi in una riflessione del mondo che non è mai la vita, ma quello che ci si immagina. Ogni pagina scritta è quindi rivolta al futuro, alla possibilità di abitare un tempo che viene».

Il brano è tratto dal settimo capitolo del volumetto, che per titolo ha La sorgente. «Ma se la scrittura è questo flusso di immaterialità, qual è la sua sorgente? Voglio usare il celebre episodio del dottor David Livingstone, perduto in Africa alla ricerca delle sorgenti del Nilo, sulle cui tracce si mise Henry Stanley. Non per spiegare, ma per continuare a cercare», sottolinea Palandri dopo aver tessuto una trama fittissima e assai densa di riflessioni, dove ragionato degli dei omerici e della lezione di Socrate, di Blake e del MeToo, di Joyce visto da Virginia Woolf e dello Zeno di Svevo, di Catullo, di Dante, di Freud, di Kafka e di Montale, di Deleuze e Guattari, di metafisica e scienze cognitive, di antropologia e psicanalisi, di teatro e cinema, di estraneità e identità, di conformismo e differenza: insomma di quelli che nel suo Boccalone, epocale esordio narrativo del 1979, erano detti i materiali di una cultura devastata e qui invece vanno a comporre una sorta di opera mondo, la trama di una linea di formazione culturale se non proprio di una autobiografia letteraria. E dopo aver fissato i suoi romanzi dal 1986 al 2010 nel ciclo Le condizioni atmosferiche, a cui sono poi seguiti L'inventore di se stesso del 2017 e Verso l'infinito del 2019, in Sette finestre allarga lo sguardo e avverte l'urgenza di definire una geografia fluttuante e una temporalità ondulata. Quasi sulla scorta del Rovelli che indaga i buchi bianchi, lui prova a declinare «qualcosa di più grande di un libro, significati che a loro volta si sono preceduti, causati, respinti, perduti, e che in noi ritornano a parlare. Attraverso l'essere umano che ha scritto acconsentiamo a che quelle storie si dispieghino e, ai nostri occhi, lui o lei cresce con i mondi che in quelle narrazioni si sono espressi. Nel pensarle diventiamo un'unica cosa con loro».

A muoverlo è la convinzione che «bisogna aprire, pensare il mondo e sentire la realtà oltre quel racconto. Diventa necessario a questo punto aprire a interpretazioni diverse». Occorre acquisire il profilo esplorativo di Henry Monton Stanley verso le sorgenti del Nilo: non per spiegare, ma per continuare a cercare. Perché «gli esploratori che si sono addentrati nella giungla sono le nostre letture. La ricerca è il mondo poetico». L'impresa è rischiosa, provoca dubbi e ferite, comporta prezzi da pagare, scuote e inquieta ma Palandri avverte che in fondo non c'è altra scelta per chi voglia avere a che fare con la scrittura: «La ricerca si nutre di ciò che le resiste. La solitudine in questo modo si costruisce per falliti tentativi di comunicazione». Non fosse altro conclude «che per sentire il sollievo del riconoscimento e finalmente poter dire: Mr Livingstone, I presume». 

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