Jacopo Luongo e la scrittura: «Racconto la vita delle famiglie di campagna del <dud Italia»

«Napoli è importante perché permette ai protagonisti di avere uno sguardo su una città libera. Una città ricca di anima, in cui ogni contesto che si crea tra le strade sembra quasi un contesto teatrale, un contesto vero»

Jacopo Luongo
Jacopo Luongo
di Chiara Valva
Sabato 27 Gennaio 2024, 17:22 - Ultimo agg. 18:58
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Classe 2000, Jacopo Luongo è autore di «Martino e Giosuè» (Marco Serra Tarantola Editore, 255 pagine). Il libro pone un interrogativo su cosa sia l’arte e descrive la situazione di tanti giovani del sud Italia, costretti ad abbandonare il luogo nativo alla ricerca di possibilità. Martino e Giosuè sono due artisti ed amici, il loro legame di amicizia nasce nelle campagne del sud Italia e nonostante le differenti condizioni economiche familiari, i due sviluppano una connessione profonda. Con l’aiuto dei familiari di Giosuè, i due si avventurano a Parigi per affinare i loro talenti: Martino con i suoi pennelli e Giosuè con le sue note. La metropoli offrirà loro nuovi orizzonti, ma allo stesso tempo li risucchierà in un vortice di vizi offuscando i loro sentimenti e spingendoli nel dubbio: «Che cos’è l’arte?».

Cosa l’ha ispirata a scrivere questo libro?
«Una sera prima di andare a dormire scrissi quattro righe su un taccuino.

Queste auspicavano a rappresentare un contesto di sud Italia e di campagna ed è da questo contesto che parte l’ispirazione della storia».

Lei è originario del sud Italia, è la sua esperienza al sud ad averla ispirata a scrivere questo libro?
«Chiaramente, deriva dall’immagine che il sud ha lasciato dentro di me, i primi capitoli si concentrano proprio sulla vita delle famiglie in un contesto di campagna»

Quali sono le differenze tra l'arte che i due protagonisti producono in campagna e quella che producono a Parigi?
«Il sud permetteva un contesto di dialoghi comunitari, cioè interfacciarsi spesso con le stesse persone, legandosi a loro. La comunicazione in questo contesto non è solo utilitaristica. Il luogo in cui vivono gli fornisce una grande opportunità: l’intuizione artistica. Quando si trasferiscono a Parigi cambia il loro approccio, lì non riescono ad avere lo stesso tempo che avevano nel contesto di campagna ed in cui riuscivano ad avere le loro intuizioni nei luoghi aperti, liberi. Parigi in quegli anni iniziava ad essere una metropoli capitalista ed in espansione da un lato e la capitale degli artisti dall’altro».

Quali sono i fattori che contribuiscono alla loro evoluzione artistica a Parigi?
«Quando iniziano ad avere agganci nel settore artistico, iniziano a vedere due facce che si sviluppano nella Parigi dei sottoborghi, in cui il prodotto artistico contemporaneo si interfacciava con il prodotto artistico del tempo addietro. Un’altra dinamica presente è il contesto parigino borghese di allora, la loro espressione artistica raggiunge uno status quo».

Come l’intuizione e l’espressione artistica si manifestano nell’arte dei protagonisti?
«Io differenzio intuizione ed espressione artistica. In ogni luogo che visitiamo potremmo avere un’intuizione, questa ci permette di produrre un’espressione artistica. I protagonisti a Parigi raggiungono un’espressione artistica, in risposta alla disillusione accademica inziale. Il senso dell’arte si capovolge. La loro anima nel contesto di una metropoli tende a divenire più logica e va in contrasto con l’intuizione artistica, anche la domanda su cosa è l’arte inizia a perdersi».

Quando i protagonisti iniziano a pensare di ritornare in Italia?
«Durante il loro sviluppo di studio e di carriera conoscono un professore, con lui si mette in atto una denuncia al sistema artistico del tempo. Questo porta i due a fare la considerazione di tornare indietro e ricercare l’intuizione primaria, quella che sentivano più genuina rispetto alle altre. Il ruolo del professore è fondamentale perché adotta un tipo di comunicazione totalmente emotivo. Invita Martino a chiacchierare, nel parlare si ritrova la risposta di che cos’è l’arte, se dell’arte non se ne parla non la si produce. Però se dell’arte se ne parla la si etichetta. Se invece si dialoga delle emozioni l’arte la si fa nascere. In questo modo Martino riesce a capire quali sono stati i processi di crescita e ad identificare da sé gli errori commessi nel percorso, arrivando ad una sorta di auto-giudizio».

Perché i protagonisti quando tornano in Italia, vanno a Napoli?
«Viene offerto loro un lavoro al San Carlo e lo colgono. Napoli è importante perché permette ai protagonisti di avere uno sguardo su una città libera. Una città ricca di anima, in cui ogni contesto che si crea tra le strade sembra quasi un contesto teatrale, un contesto vero. Loro lì capiscono di avere l’intuizione totale e capiscono di poter avere a che fare con ogni senso dell’anima. Infatti, decidono di restare».

La loro esperienza vuole rappresentare un elogio a Napoli?
«Sì, rappresenta un elogio. Quando Martino vede il Cristo Velato, prova a tirar fuori il taccuino per provare a disegnare ma ci scrive solo «ho visto il Cristo Velato», lì il senso dell’arte viene espresso in maniera universale. Il luogo stesso esprime il senso totale dell’anima. Loro passano giornate suggestive lì, chiacchierando dal balcone da cui si vede il mare».

Per lei cos’è l’arte?
«Il dialogo. Il dialogo è l’ultimo prodotto che l’anima conduce».

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