Strategie vincenti/La battaglia del clima: la vera sfida dopo il Covid

Strategie vincenti/La battaglia del clima: la vera sfida dopo il Covid

di Francesco Grillo
Lunedì 14 Giugno 2021, 00:26 - Ultimo agg. 16 Giugno, 01:15
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Una mappa che riporta la forma della Terra nel Pliocene, il periodo che precede la comparsa della nostra specie in Africa, può essere un modo efficace per rappresentare verso quale disastro ci stiamo dirigendo. A meno che le grandi economie del mondo – a partire dalle sette (G7) riunite in questi giorni in Cornovaglia – non decidano di invertire subito la rotta.

 
È, infatti, dal Pliocene – circa 4 milioni di anni fa - che la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera non raggiungeva i livelli registrati un mese fa dagli osservatori collocati su alcuni atolli del Pacifico. Nel Pliocene la temperatura era di circa 3,5 gradi superiore a quella che la Terra conobbe prima dell’inizio dell’industrializzazione (nel settecento) e verso queste temperature andremmo se non riusciremo a rispettare la promessa che il mondo ha fatto a se stesso (sei anni fa) con l’accordo di Parigi.


È interessante notare che in quelle condizioni – 4 milioni di anni fa – il livello dei mari era più alto di 25 metri: la Florida, il canale di Panama e New York erano sott’acqua; della penisola italiana era emersa solo una stretta lingua di terra che finiva in Toscana. 
Può sembrare una visione apocalittica e, tuttavia, la pandemia dovrebbe averci insegnato che sta scadendo il tempo che abbiamo a disposizione per evitare disastri ancora maggiori.

Il modo in cui il cambiamento climatico funziona, ricorda, in fondo, certi banali processi di passaggio di energia che ciascuno di noi osserva sui fornelli della propria cucina. Enormi quantità di anidride carbonica sono state rilasciate nell’atmosfera dalle fabbriche, dai consumi individuali nelle città, dall’allevamento intensivo negli ultimi tre secoli. Gli inquinanti producono – quando se ne supera una certa concentrazione – il riscaldamento del pianeta (nonostante il congelamento pandemico, il grafico che accompagna l’articolo dice che il 2020 è stato l’anno più caldo della storia).
Quest’ultimo genera un progressivo scioglimento dei ghiacciai (al punto tale che diventano navigabili i mari che dalla Cina portano alla Germania costeggiando la costa settentrionale della Russia). E, infine, ciò porta ad un innalzamento del livello dei mari (e dell’acidità dell’acqua che contengono). 
È un processo che la Terra ha già vissuto numerose volte nel corso di alcuni millenni di storia. E, tuttavia, ciò che spaventa del fenomeno che viviamo sono tre dettagli di enorme importanza: la modifica del clima sta avvenendo – per effetto della modifica che l’uomo ha fatto del suo ambiente – a velocità molto superiori; essi scatenano effetti non controllabili quando si superano certe soglie, oltre le quali è difficile tornare indietro; al centro del processo ci siamo noi e, cioè, la società più tecnologicamente evoluta, ma anche quella che, proprio per questa ragione, è la più vulnerabile. Perdere New York, Venezia, buona parte del Bangladesh scatenerebbe reazioni per le quali non siamo politicamente e psicologicamente preparati.
Il punto è che la pandemia ci lascia esausti proprio nel momento nel quale o assumiamo decisioni drastiche, oppure perdiamo definitivamente il controllo di quella astronave che ci accompagna attorno al Sole.

E le decisioni da prendere sono ostacolate da una differenza che spacca, letteralmente, in due il mondo: il 90% delle nuove emissioni che verranno scaricate nell’atmosfera nei prossimi dieci anni, provengono dai Paesi (non solo la Cina) che stanno raggiungendo livelli di benessere elevati; tuttavia, il 90% di quelle che già galleggiano sopra le nostre teste sono state prodotte dai Paesi occidentali che quei livelli li hanno già raggiunti. Ai primi viene chiesto uno sforzo maggiore perché sono quelli che possono tecnicamente fare di più; sono, però, i figli delle generazioni che in Occidente hanno beneficiato della prima industrializzazione che devono rispondere di un modello di sviluppo che ci ha portato fino al punto di non ritorno. 


Il problema vero è, dunque, che sulla questione del cambiamento climatico va persino concepito un modo nuovo per ristabilire equità che attraversa generazioni e mondi diversi. L’idea del G7 di offrire 2,5 miliardi di dollari per convincere i Paesi in via di sviluppo a non produrre più carbone (laddove il consumo di carbone vale 267 miliardi di dollari all’anno solo in Asia) è la dimostrazione più involontariamente netta della necessità di trovare un approccio diverso. E l’equazione difficile può essere risolta cambiandone due decisivi fattori. 


Dobbiamo, innanzitutto, rimuovere l’idea che rispondere al cambiamento climatico comporti necessariamente un costo la cui distribuzione impone negoziazioni impossibili. In effetti, invece, i numeri dicono che non è detto che i Paesi che stanno riducendo le emissioni più velocemente ne paghino un costo in termini di minore crescita economica. La ricerca di modelli di produzione e consumo più sostenibile sono, in realtà, legati a tutti i più formidabili treni di innovazione tecnologica (a partire dalle batterie elettriche fino alla ristrutturazione delle catene di distribuzione) che nessun Paese può permettersi di perdere. Piuttosto che parlare nei vertici di G7 di costi, dovremmo ragionare di incentivi e, persino, di obiettivi vincolanti per raggiungere determinati traguardi che impegnino tutti (gli inglesi dal 2040 non potranno più comprare veicoli alimentati con combustibili fossili).


In secondo luogo, dobbiamo arrenderci all’evidenza che, ormai, per salvarci dobbiamo porci non solo la sfida politica di come ridurre le nuove emissioni, ma anche l’impresa tecnologica di come ridurre il ben più ingente stock di gas che sono già presenti nell’atmosfera. Tecniche di cattura dell’anidride direttamente dall’aria o soluzioni più naturali di estensione delle foreste che di carbonio si nutrono, sono la frontiera alla quale arrivare con grande velocità. Con la velocità che, in fondo, l’umanità ha trovato, all’improvviso, quando ha dovuto investire tutto il suo talento scientifico per arrivare ai vaccini con i quali stiamo combattendo una guerra che sembrava già persa. 
Per riprendere il controllo di fenomeni che abbiamo innescato abbiamo bisogno degli stessi ingredienti che il mondo regolarmente trova quando vi è costretto dall’istinto alla sopravvivenza: idee nuove e coraggiose.

 
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