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Donne, in Cisgiordania chi è incinta rischia di perdere i figli per la povertà. Viaggio nei villaggi con l’ambulanza mobile dell’ospedale cattolico Holy Family

Le visite dei medici nel villaggio di Rawaen
Le visite dei medici nel villaggio di Rawaen
di Franca Giansoldati
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 23 Novembre 2022, 12:13 - Ultimo agg. : 27 Novembre, 11:39
4 Minuti di Lettura

L'unica strada asfaltata che conduce ai minuscoli villaggi dei beduini in Cisgiordania è desolata.

Ascolta: Donne, il messaggio di Lucia Mascino: «Diventiamo regine di noi stesse»

Betlemme, cittadina di 20 mila abitanti resa prospera dal turismo religioso, sembra lontana anni luce. Dove i caseggiati si diradano in lontananza spuntano gli insediamenti dei coloni protetti da una rete di filo spinato. Attorno il paesaggio resta brullo, con pochi alberi e qualche carcassa di auto sul ciglio, rimanenza dello scoppio di chissà quale rivolta. Sul tragitto che una volta al mese percorre l’ambulatorio mobile dell’ospedale Holy Family con a bordo un pediatra e un ginecologo ogni tanto si incrociano persino pittoreschi gruppi di cammelli alla ricerca di un po’ d’acqua, rendendo ancora più surreale la missione sanitaria. Per le donne palestinesi dei villaggi beduini quel furgone significa il diritto alla salute. Vengono aiutate a portare avanti la gravidanza, sottoposte a screening contro il cancro e a monitoraggi costanti sul feto per vedere che tutto proceda nel migliore dei modi. La distanza tra l’ospedale cattolico di Betlemme gestito dai Cavalieri di Malta e i villaggi, in linea d’aria non è enorme, un paio d’ore di strada, eppure il contrasto con le condizioni di vita di queste donne che si presentano totalmente velate è qualcosa di stupefacente, al punto da far sembrare quel breve tragitto un salto indietro nel tempo.

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BAMBINI

Non appena il furgone bianco con la grande croce rossa a otto punte parcheggia nel bel mezzo di un desolato spiazzo, davanti a una costruzione sgangherata che dovrebbe fungere da ambulatorio, attendono già diverse pazienti. Tutte giovanissime. Alcune sono accompagnate dal marito che controlla guardingo da lontano, seduto in macchina a fumare. Le altre si sono fatte chilometri a piedi visto che il servizio pubblico è inesistente. Farsi visitare può essere una questione di vita o morte visto che evita interruzioni di gravidanze e malattie. Le nascite premature sono in aumento, segno di forte stress per la gestante ma anche di una alimentazione carente. «Ci capita molto spesso di dover soccorrere casi gravi. Ci sono pazienti che per le violenze subite perdono il bambino. Negli ultimi anni stiamo registrando anche una crescita anomala di parti prematuri. I motivi sono diversi: dallo stress dovuto alla guerra, alle misere condizioni in cui vivono. Riscontriamo, infine, tanti nascituri affetti da malattie genetiche causate da matrimoni tra consanguinei, cugini con cugini per esempio» racconta il dottor Motasem Hroub. Le pazienti in attesa sostano aspettando di essere chiamate. Nonostante siano infagottate in vestiti lunghi fino ai piedi è facile intravedere la sagoma della gravidanza in corso. Nel deserto della Cisgiordania quel furgone rappresenta per loro la possibilità di cure adeguate, un diritto che altrimenti faticherebbero ad avere. A bordo dell’ambulatorio ci sono macchinari di ultima generazione. È lì, dietro un separè, che pediatri e ginecologi esaminano, fanno prelievi, ecografie. Appena Motasem conclude l’ultima visita, la vettura si rimette in moto per raggiungere un altro puntino sulla carta geografica. Alle famiglie beduine non importa se i medici che visitano i corpi delle loro donne siano maschi o cristiani. Ai loro occhi è prezioso è che facciano nascere sani i loro figli: questo garantisce all’ospedale Holy Family un rispetto non scontato in un territorio totalmente musulmano. A Kissan, un altro villaggio composto da qualche centinaio di caseggiati di lamiera, la scena si ripete: una composta fila attende la visita mensile. «Sono incinta da cinque mesi, e questo è il mio primo figlio». La ragazza si chiama Wafe, ha 18 anni anche se ne dimostra di meno. Ha il capo velato ma il volto è scoperto. È nata e cresciuta a Gerico dove ha potuto studiare. Il suo inglese è buono anche perché, racconta, guarda film in lingua originale. Il destino l’ha condotta in mezzo al deserto perché suo padre l’ha fatta sposare a suo cugino. «Vengo a fare controlli ogni mese per vedere se la gravidanza procede, ho solo un po’ d’ansia». Nel frattempo l’ostetrica si fa largo sorreggendo una giovane che fa accomodare per prima sulla poltrona ginecologica dentro al camper.

LEGGI

La dottoressa Vera Bannoura spiegherà che rischiava di perdere il bambino. «Se ci sono violenze è facile rilevarle per via dei lividi sul corpo». Quasi nessuna donna però si spinge a denunciare. Si tratterebbe di un passo rischioso e complicato, e poi nessuna di loro è autonoma economicamente. Le statistiche palestinesi dicono che solo 4 donne su 10 denunciano. La percentuale si abbassa ancora nelle realtà rurali, attraversate dalla forte crescita del radicalismo islamico che restringe il campo di azione e di indipendenza femminile. La Palestina avrebbe ratificato nel 2014 la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione femminile (CEDAW), ma l’incorporazione delle leggi nazionali in linea con la CEDAW non è mai avvenuta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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