Musicista ucciso a Napoli, don Mimmo Battaglia: «Giogiò, perdono: tutti noi colpevoli della tua morte»

L’invito dell’arcivescovo Battaglia ai giovani: restate

Don Battaglia con la mamma di Cutolo
Don Battaglia con la mamma di Cutolo
di Marilicia Salvia
Mercoledì 6 Settembre 2023, 23:55 - Ultimo agg. 8 Settembre, 07:22
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La bara bianca portata fuori dalla chiesa e sollevata in alto, sopra le teste della gente, su in alto ben visibile a tutti per lunghi minuti, mentre l’applauso si fa più forte, più ritmato, più commosso, ed è impossibile non immaginare quel legno come un palco, e quell’applauso come un tributo non a un giovane morto a 24 anni senza un perché ma al concertista: il tributo che Giovanbattista Cutolo avrebbe saputo meritare mille e mille volte nella vita se gli fosse stato consentito di viverla, l’applauso caldo del pubblico che avrebbe riempito di gioia i suoi giorni, di senso i suoi sacrifici. E invece la bara si abbassa, e viene immessa nel cofano dell’auto funebre, come ad ogni funerale, e mamma Daniela e papà Franco fanno fatica a staccarsi, a consentire che il portellone si chiuda, che l’ultimo viaggio cominci, e in piazza non restano che abbracci, occhi arrossati, volti che non sanno cosa dire. Ma anche l’eco di quel grido lanciato dal vescovo Mimmo Battaglia, «restate, restate e operate una rivoluzione di giustizia e onestà!» che risuona come uno spartiacque, il compito a casa su cui interrogarsi, e che potrà fare la differenza. 

È dalla fine allora che bisogna cominciare, da questo dolore sordo che dalla chiesa del Gesù Nuovo si spande a ondate verso una piazza affollata come la mamma di Giovanbattista aveva chiesto che fosse, è da questa emozione collettiva che bisogna partire per dare senso all’impossibile, alla morte di questo ragazzo «pacifico e onesto» - come lo ha definito Battaglia nell’omelia - ucciso da una mano «giovanissima ma già deviata». L’ennesimo straziante addio di un bravo figlio di questa città traditrice, eppure un punto possibile di non ritorno, uno choc terribile ma salutare se succederà, come chiede il vescovo nel suo discorso teso, duro, più volte interrotto dagli applausi, che «la musica dolce» di Giogiò si trasformi in «uno squillo potente» capace di «destare i nostri cuori assopiti e di restituirci al nostro compito più urgente: disarmare Napoli, educare Napoli, amare Napoli». È per questo che Battaglia chiede ai giovani di restare, di non ascoltare chi anche oggi, come un tempo, consiglia di scappare, ma di restare e seminare «il seme della solidarietà, il fiore della fraternità, la quercia della giustizia».

È per questo che mamma Daniela, che oggi incontrerà a Roma la premier Giorgia Meloni («mi è molto vicina, le istituzioni sono venute tutte») definisce «un crimine contro l’umanità» la morte del figlio. È per questo che ha senso ripartire da questa piazza. Dalla commozione e dalla rabbia, anche, dei giovani colleghi che con Giogiò lavoravano ogni giorno, con passione, per migliorarsi e rendere la Nuova Orchestra Scarlatti una realtà artistica sempre più di valore.

Dalle lacrime dei compagni e persino dei professori del suo vecchio liceo, il Vittorio Emanuele, e dei giovani che davanti all’obelisco dell’Immacolata hanno messo uno striscione in cui chiedono giustizia; dallo sguardo spaurito eppure consapevole dei ragazzini arrivati qui con la divisa dei lupetti scout, dalla determinazione dei giovani universitari - tantissimi, barba accennata e zainetto in spalla - che Giovanbattista neanche lo conoscevano ma che non si accontentano, finita la messa, di andare in pace. 

C’è una città “normale”, dieci metri più giù, dove si sfornano pizze e si bevono spritz, dove turisti in scarpe da ginnastica seguono l’ombrellino delle guide, e non capiscono cosa stia accadendo qui, sotto un sole addolcito dalla clemenza del vento, davanti a uno schermo da cui risuonano parole di dolore e una colonna sonora struggente, le musiche eseguite dai compagni di Giovanbattista insieme a Marco Zurzolo, che ha suonato il corno come avrebbe fatto lui. Il “suo” corno, lo strumento nobile e insolito che Giogiò suonava come pochi in Italia, è poggiato sulla bara, insieme a una maglietta uguale a quelle indossate dai familiari e dagli amici, bianche con la sua foto e la scritta “Giogiò vive”. «Giogiò vive», ripeteranno più volte, alzando la voce, i giovani in piazza, al passaggio del feretro.

 

È un desiderio, un impegno a non dimenticare: il vescovo Battaglia invita a considerarla una certezza, «nel momento stesso in cui ha chiuso gli occhi su questa terra li ha riaperti nella luce di Dio» e adesso Giovabattista «ci invita a non tirare i remi in barca e questo invito - dice Battaglia - lo rivolge soprattutto a voi cari giovani, cari musicisti, cari suoi coetanei: amate, amate sempre e fino in fondo, anche per lui, anche nel suo nome e costruite una società più giusta, più mite, più sicura». C’è una città “normale”, quella delle pizze e dei turisti, del mare e della bellezza, ma ce n’è un’altra, quella della «povertà educativa e sociale» mai abbastanza presa in considerazione, che fa dire a Battaglia che «quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, le promesse non mantenute, i proclami, i post, i comunicati cui non sono seguite azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città abitata anche da adolescenti, poco più che bambini, che camminano armati».

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È il cuore dell’omelia, pronunciata dall’altare guardando negli occhi i genitori di Giovanbattista, la sorella Ludovica che ha scritto un suo dolente messaggio al fratello («Napoli sei tu, non Gomorra o Mare fuori»), e accanto a loro il presidente della Regione Vincenzo De Luca, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il prefetto Claudio Palomba, i ministri dell’Interno e della Cultura Matteo Piantedosi e Gennaro Sangiuliano, gli ex ministri Roberto Speranza e Sergio Costa. Battaglia non fa sconti a nessuno, chiede quattro volte perdono a Giogiò: perdono per se stesso, «perché forse avrei dovuto non solo appellarmi ma gridare fino a quando le promesse non si fossero trasformate in progetti e i proclami in azioni concrete»; perdono per Napoli dove vivono coloro «che si girano ogni giorno dall’altra parte, che pur occupando incarichi di responsabilità hanno tardato e tardano a mettere in campo le azioni necessarie per una città più sicura»; perdono per tutti gli adulti di Napoli «che dimenticano che i bambini, gli adolescenti, i giovani sono figli di tutti e che devono prendersene cura facendo la propria parte» e infine perdono per tutti, per «i nostri protagonismi sterili, le nostre visioni parziali, la nostra incapacità di fare rete, di superare l’idolatria dell’”io” per creare un “noi”, opponendo un sistema di vita al sistema di morte di cui anche tu sei stato vittima innocente». 

Tutti colpevoli, nessun colpevole, il rischio è sempre in agguato. Ma nessuno, di fronte a quella bara bianca, riesce oggi a dirsi innocente. Il messaggio che parte dalla chiesa cara a Giogiò, che frequentava fin da piccolo, arriva all’esterno forte e chiaro: «Occorre trasformare le pistole in posti di lavoro, i coltelli in luoghi educativi, i pugni in mani tese, gli insulti in melodie, concerti, arte, vita». I compagni di Giovanbattista intonano con i loro strumenti l’Inno alla gioia a un ritmo lento, spento. La bara viene accompagnata fuori, l’ultimo applauso è quello più forte. Che adesso non cali il sipario.

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