Blitz a Roma: politici ed ex terroristi, la mafia degli appalti

di Massimo Martinelli
Martedì 2 Dicembre 2014, 23:26 - Ultimo agg. 23:36
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Giuseppe Pignatone era stato profetico. Solo domenica aveva lanciato il suo sasso nello stagno della politica capitolina, parlando all’assemblea programmatica del Pd: «Le indagini nei prossimi mesi ci diranno se ci sono organizzazioni mafiose che operano in città e che caratteristiche abbiano». Sono bastati pochi giorni e il capo dei pm di Roma ha messo in tavola le sue carte.

Fornendo una risposta chiara a tutti coloro che si erano interrogati sui motivi che avevano portato l’alto magistrato a intervenire in un consesso politico.

C’era da far capire, guardando negli occhi i responsabili della politica romana, che la città era finita in mano ad una piovra della quale nessuno sospettava l’esistenza; che viveva in un «mondo di mezzo» passando inosservata e condizionando la politica, il tessuto sociale e l’economia della città. Non ci era riuscita nemmeno la Banda della Magliana, nella quale il capo di questa nuova entità criminale, Massimo Carminati, si era costruito una reputazione.

I De Pedis, i Giuseppucci, gli Abbruciati lottavano con i denti per guadagnarsi uno spazio in una città in cui operavano le cosche napoletane e siciliane; e finirono con il diventare un esercito armato che, più o meno inconsapevolmente, serviva gli interessi di pezzi deviati dello Stato. Pignatone voleva far capire che la città era in mano ad una mafia nuova, autoctona, che aveva mutuato i sistemi criminali dei clan siciliani e calabresi ritagliandoli su misura per la Capitale. Per i commercianti dei quartieri alti come per gli imprenditori della periferia Est, per i funzionari pubblici e, soprattutto, per la politica locale. Insomma, Massimo Carminati lo Stato se lo era comprato. Aveva i soldi, e tanti; sapeva che una busta con cinquemila euro apre qualsiasi porta se infilata nella tasche di un dirigente che ne guadagna duemila. Sapeva che ancora più efficaci sono i pacchetti di voti, che raccoglievano prima per i politici del centro destra e subito dopo per quelli del centrosinistra, convogliando in una direzione o nell’altra le preferenze di centinaia di sicari prezzolati. E ancora, Massimo Carminati conosceva il potere psicologico che si può esercitare sull’essere umano esibendo la violenza fisica.

L’ordinanza firmata da tre pubblici ministeri che da quando si occupano di Carminati hanno dovuto rafforzare la scorta, fornisce la fotografia nitida di un sodalizio criminale che avrebbe potuto uccidere definitivamente l’imprenditoria sana di questa città. «Questi devono essere i nostri esecutori, devono lavorare per noi», diceva Carminati al suo luogotenente Buzzi, seduto ai tavolini del bar Vigna Stelluti, uno dei luoghi culto dei giovani di Roma Nord. E «questi», nell’immaginario individuale di Carminati erano i politici ma non solo. Erano gli imprenditori agricoli che dovevano cedere i terreni; i venditori di automobili che dovevano pensare al parco macchine della banda; erano i commercialisti che dovevano nascondere dentro scatole cinesi societarie la titolarità di negozi e ristoranti comprati con i soldi della droga. E se non bastavano le migliaia di euro che Buzzi distribuiva a piene mani, allora Carminati passava la mano ai sodali di un tempo, agli amici dal coltello facile e con la mano pesante. Anche loro finiti in manette nella retata di ieri per aver rotto una gamba, o aver marchiato con una lama la pelle di qualcuno che ritardava a capire chi fosse a comandare.

Prepotenza, ma anche protezione. Perché quelli che sceglievano di stare con la banda del benzinaio di Corso Francia, dove Carminati riuniva i suoi fedelissimi, sapeva di poter contare su un’assicurazione sulla vita. Ne sa qualcosa Marco Iannilli, il brillante commercialista diventato milionario con le tangenti Finmeccanica: quando Gennaro Mokbel, forse il più violento dei protagonisti di quella stagione di corruzione, mise nel mirino Iannilli per farsi restituire otto milioni di euro, intervenne Carminati, con l’autorevolezza che sono un capomafia può esercitare. Dalla panchetta del benzinaio spese poche parole per dire che Iannilli non si toccava. E Mokbel, che pure a quei tempi poteva permettersi una scorta armata di kalashnikov anche per circolare in viale Parioli, si inchinò.