Sandokan, Francesco Schiavone si pente: finisce il clan dei Casalesi

Dopo 26 anni di carcere duro la decisione di collaborare

Sandokan, Francesco Schiavone si pente
Sandokan, Francesco Schiavone si pente
Leandro Del Gaudiodi Leandro Del Gaudio
Venerdì 29 Marzo 2024, 23:20 - Ultimo agg. 31 Marzo, 09:59
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La cassaforte del clan e la rete di protezioni. I canali di investimento e di riciclaggio del denaro sporco, ma anche la trama di contatti e protezioni che hanno accudito, almeno fino al 2008 (anno delle condanne in appello nel processo Spartacus) un pezzo di mafia in terra campana. Sono questi i punti su cui battono gli inquirenti, nel corso della primissima fase delle indagini legate alla collaborazione con la giustizia di Francesco “Sandokan” Schiavone, il boss dei casalesi dai primi anni Novanta a capo della potente cupola mafiosa del casertano. Detenuto da 26 anni (dall’undici luglio del 1998) al carcere duro, settanta anni, condannato in via definitiva a ben 14 ergastoli, Francesco Schiavone ha deciso di imprimere una svolta alla sua vita e a quella dei suoi congiunti. Un pentimento strategico, per impedire tentativi di riorganizzazione della dynasty familiare per mano del figlio Ivanhoe (che verrà scarcerato il prossimo luglio). Una svolta passata sotto silenzio, che si è consumata in due carceri di massima sicurezza: siamo agli inizi di marzo, quando Schiavone cerca e ottiene un contatto con il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo e con il pm della Dna Antonello Ardituro, quest’ultimo per decenni al lavoro sui rapporti tra casalesi, imprese e politici collusi.

Stabilito il primo contatto, il caso viene seguito dalla Procura di Napoli guidata dal procuratore Nicola Gratteri e affidato al pool della Dda che si occupa dei casalesi, sotto il coordinamento dell’aggiunto Michele Del Prete. Un lavoro in sinergia, che dà i suoi frutti, dal momento che la notizia del pentimento di Sandokan resta blindata (ieri è stata svelata da Cronache di Caserta), consentendo il trasferimento di Schiavone dal carcere di Aquila a quello di Parma. Per giustificare il trasferimento, viene costruita una verità posticcia, quella dell’urgenza dettata da un grave problema di salute: «Francesco Schiavone ha un tumore, è grave...», è stata la fake usata per giustificare il trasferimento di Schiavone e dare inizio alla sua collaborazione con la giustizia.

Intanto, sono stati avvisati i suoi congiunti (che non sembrano interessati a un trasferimento in località protetta) ed ha preso inizio un lavoro investigativo che potrebbe dare i suoi frutti a stretto giro.

Chiara la strategia investigativa messa in campo dalla Dna e dalla Procura di Napoli: puntare ai capitali e alle protezioni. Quindi: andare oltre l’ala militare e la ricostruzione degli omicidi (che ovviamente restano una frontiera decisiva nelle indagini antimafia) e puntare ai capitali. Inchiesta che scava sugli insospettabili, magari tornando nel solco di traiettorie investigative già note, che potrebbero in questi giorni far registrare delle svolte clamorose. È il caso dei subappalti all’ombra delle grandi commesse nazionali, come i lavori per il rifacimento del manto e dei binari di alcune linee ferroviarie in Campania. Una inchiesta, quest’ultima, che è stata condotta in questi anni dai pm anticamorra Graziella Arlomede e dallo stesso Ardituro, che - qualche anno fa - coinvolse un imprenditore casertano (con studio professionale in viale Gramsci) del calibro di Nicola Schiavone (solo omonimo del boss oggi pentito).

Un processo ancora in corso, che potrebbe far registrare delle conferme investigative, magari proprio con il debutto in aula dello stesso Sandokan. È una storia che fa leva sul presunto contatto tra soldi sporchi ed economia pulita, tra camorra casertana e pezzi del mondo produttivo napoletano e campano all’ombra delle grandi partecipate di Stato. Inchiesta datata 2017, approdata dinanzi alla terza sezione penale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nella quale si fa riferimento a finanziamenti occulti per il mondo politico di Casal di Principe ma anche per la carriera di manager di Nicola Schiavone.

È ancora in questo dibattimento che sono venute fuori alcune ammissioni che ora attendono la versione dell’ex boss di Casal di Principe. Ricordate le parole messe agli atti da Giuseppina Nappa, moglie del boss oggi pentito? Riferendosi all’imprenditore Nicola Schiavone, disse che «ha usato il lievito madre» di mio marito. Metafora che ora attende riscontri sotto il profilo processuale. Stesso discorso da parte del figlio pentito di Sandokan, vale a dire di Nicola Schiavone (omonimo del manager imputato, fratello di Valter, anch’egli collaboratore di giustizia), che ha fatto riferimento a una «terra arata grazie al concime» messo diversi anni prima.

L’ultimo ergastolo incassato dal boss risale a un mese e mezzo fa, quando di fronte al gup Vinciguerra del Tribunale di Napoli, a Francesco Schiavone venne comminato il massimo della pena (nonostante la scelta del rito abbreviato) per il triplice omicidio dei fratelli Diana e Cantiello, chiudendo in questo modo la sua carriera di imputato numero uno. Era il quattordicesimo ergastolo, al culmine di una carriera criminale che nasce con la scomparsa del fondatore dei casalesi, quell’Antonio Bardellino sulla cui fine in Brasile (anno 1988) restano ancora dubbi e sospetti. Un caso, quello di Bardellino (probabilmente ucciso dalle nuove leve del clan) su cui Schiavone oggi potrebbe offrire il proprio contributo di chiarezza. Come per il delitto del carabiniere ventenne Salvatore Nuvoletta (anno 1982), per il quale Schiavone è stato assolto e scagionato da un reo confesso. Senza contare i tanti momenti di una crescita criminale, economica e politica che è andata avanti fino alla conferma delle condanne di Spartacus, ormai quindici anni fa.

Fu in occasione della sentenza in Corte di Assise Appello a Napoli, che il boss fece sentire la sua voce, di fronte alle telecamere e ai taccuini di cronisti inviati per assistere al processo scandito da minacce a magistrati e giornalisti del calibro di Roberto Saviano e Rosaria Capacchione: «Chiedo che venga spento il monitor - disse dal carcere del 41 bis - non sono una bestia in gabbia al circo». Ora spetta a lui riaccendere il monitor, a distanza di dodici anni dalla scelta collaborativa di Antonio Iovine (suo socio, assieme ai due irriducibili Michele Zagaria e Francesco Bidognetti) e dei figli Nicola e Valter. Un racconto che potrebbe aprire lame di luce sui traffici di rifiuti che hanno devastato la Campania, ma anche sulle protezioni godute dai capi della Nuova famiglia, che da Bardellino alle nuove paranze controlla un pezzo di economia pulita in Campania: la storia del «lievito madre» che torna sul tavolo dei pm antimafia.

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