Elezioni, il mea culpa del premier «Questo il momento più difficile»

Elezioni, il mea culpa del premier «Questo il momento più difficile»
Mercoledì 17 Giugno 2015, 03:41
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Alessandra Chello
L'apologia di Matteo. C'è dentro tutto. Dalle bruciature prese alle regionali per colpa delle mediazioni nel Pd, alle crisi di coscienza sulla scuola. Si sfoga. Ammette. E annuncia il ritorno alle origini del renzismo. Sa bene che per le riforme ha bisogno di tutto il partito. Altrimenti il flop è assicurato. «Quello che attraversiamo è il momento più difficile e più affascinante della legislatura che arriverà fino al 2018» avverte. «Fa venire i brividi viste le sfide importanti che ci attendono. Ma toglietevi dalla testa le elezioni anticipate. Il prossimo congresso del Pd è nel 2017, vado a casa quando perdo le elezioni al governo o il congresso. Non ho neanche preso la residenza qui, piego due camicie e vado via. Ma sono stato tanto ad ascoltare, se parlo sempre delle cose delle correnti dem vengo a noia non a me stesso ma agli italiani».
Il segretario-premier è arciconvinto che l'Italia resti un Paese moderato nel quale si vince al centro. Cosa che non è stata consentita dalle primarie dem, finite sotto accusa per l'incapacità di selezionare una classe dirigente competitiva. In questa ottica, il «basta alle mediazioni» sventolato come un vessillo di rinnovamento-bis e l'implicito desiderio di agganciare il carro dell'innovazione al suo personale carisma forse un po' appannato dall'ultimo voto, hanno il sapore di un ritorno all'antico. Un amarcord. Un Renzi 1. L'icona del Blair italiano capace di dare forma alla terza via del Partito democratico quale ponte tra moderatismo e progressismo. Come gli chiedono di fare anche gli alleati alfaniani, troppo a disagio in una maggioranza condizionata dall'ala sinistra dem.
Poi, atterra sulla tormentata riforma della scuola. E inchioda tutti alle responsabilità: «Con tremila emendamenti non si fa tempo ad assumere per settembre», è la minaccia alle opposizioni e alla minoranza dem che apprezza la convocazione di una conferenza sulla scuola a luglio. Ma denuncia lo scaricabarile sui precari. E in un tweet chiarisce di non voler bloccare la riforma. «Noi ci siamo, spero anche gli altri: sento tutti e poi decido, se no non si fa niente». Ecco la bussola del premier. Il fatto è che Renzi non ha alcuna intenzione di riaprire la seduta di coscienza dentro il Pd sull'esito delle amministrative. All'assemblea del gruppo, che ha eletto Rosato nuovo capogruppo, pensa al rilancio dell'azione di governo. Nel solco di quanto fatto finora su riforme e Europa. Il confronto dentro il partito, chiesto a gran voce dai bersaniani, e tanto meno la riorganizzazione degli organigrammi interni, non sembra appassionarlo. E cade nel vuoto la richiesta di Fassina di «fare un bilancio» perchè «la scissione l'hanno fatta già gli elettori». Nella migliore tradizione renziana, il toro va preso per le corna. E così quel «se fossi in Marino non starei tranquillo», diventa l'ultimo avviso al sindaco, che a molti suona come un pre-sfratto. «È una persona perbene, ma lasciando l'inchiesta alla magistratura a me interessa capire se pulisce le strade, tappa le buche, affronta l'emergenza casa». Poi su riforma della pubblica amministrazione, fisco, local tax e giustizia, che «però è già molto migliorata come dimostrano i complimenti in Lussemburgo a Orlando sulle carceri» Renzi vuol chiudere il cerchio. Mentre sul fronte rovente degli immigrati aggiunge: «Sono fiducioso che al Consiglio Ue si chiuda». E non molla i paletti italiani sulle quote con una ripartizione non di 24mila profughi, «sono i baci di Celentano» ma di 30-40 mila. Altrimenti, se salta tutto, l'Italia farà da sola ma gli accordi di Dublino non li ha firmati ieri Alfano, sono arrivati quando gli stessi che oggi protestano erano al governo».
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