Libia, italiani liberati:
«Non ci torno più, mi godo la famiglia»

Libia, italiani liberati: «Non ci torno più, mi godo la famiglia»
Domenica 6 Novembre 2016, 13:14 - Ultimo agg. 7 Novembre, 11:22
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«No. Non ci torno più. È la decisione finale. Adesso mi godo la famiglia». Lo dice Danilo Calonego, il tecnico bellunese rimasto per 48 giorni nelle mani dei rapitori in Libia e liberato nella notte di ieri assieme al collega Bruno Cacace e a un italo-canadese. Nella voce di Calonego la tensione si è ormai stemperata nella felicità di poter riabbracciare la famiglia e rivedere la mamma, che non ha mai saputo del suo rapimento. «È il pensiero della mamma, della famiglia, che in quei momenti ti conforta e ti tiene su».

Il tecnico è tornato nella notte nella sua casa a Peron di Sedico dove ad attenderlo c'erano tutti i familiari. «Certo - dice oggi - ho avuto un pò di paura, ma tutto è andato bene». Non una parola sui 48 giorni del sequestro - «C'è un'inchiesta in corso», ricorda - ma sul piano generale dice di essere stato trattato bene, poi parole di elogio per il lavoro svolto dalle autorità italiane per giungere alla liberazione: «Davvero non ho parole per ringraziare tutti».

Dei giorni di prigionia però ha in mente ogni attimo e stavolta davvero potrebbe scrivere un libro sulla sua vicenda ma anche su tutti gli anni passati all'estero, soprattutto in Libia, dove in altre due occasioni aveva «rischiato grosso». «Il computer è rimasto nella mia sede di lavoro in Libia - dice ridendo - ma tutti gli appunti di quei giorni li ho in testa. Sì, stavolta ci potrei fare un libro». Di quei giorni ricorda il pensiero continuo rivolto all'anziana madre, alla moglie, alle figlie e ai nipoti. «Il pensiero della famiglia mi ha tirato su. In queste situazioni - rileva - ho capito che ci vuole molta fede, tanta speranza e tanto coraggio. Se ti lasci andare sei finito». E la Libia? «Non ci torno più, ci sono stato trent'anni, adesso basta. Adesso mi godo la famiglia».


«Se torno in Libia le mie figlie mi sparano, non posso tornare». Bruno Cacace, il tecnico italiano rapito in Libia e liberato venerdì dopo un mese e mezzo di prigionia, parla nel cortile di casa a Borgo San Dalmazzo. Con lui c'è la figlia Stefania e la mamma, Maria Margherita Forneris. In serata è previsto l'arrivo dell'altra figlia, Lorenza, che vive a Parigi. «Io piango poco, ma le mie figlie hanno pianto molto», racconta il tecnico italiano, che dice di «star bene e di avere dormito questa notte».  «Ho capito subito che non volevano solo la macchina, ho capito subito che era un'altra cosa. Fortuna che siamo qui a raccontarlo...». Nel giardino di casa sua, a Borgo San Dalmazzo, Bruno Cacace torna a parlare così del giorno in cui è stato rapito in Libia con Danilo Calonego, l'altro tecnico italiano rilasciato come lui nelle scorse ore, e il canadese Frank Boccia.

«Quando ci hanno preso eravamo bendati, poi dopo no. Non abbiamo subito nessun maltrattamento, stavamo relativamente bene in relazione alla situazione in cui eravamo - ricorda -. Mangiavamo anche bene, colazione al mattino, pranzo alle 15,30 e cena a mezzanotte. Gli orari erano sfasati, ma c'era molto da mangiare, cibo libico ma anche pasta e riso».

Le sue giornate passavano senza far niente: «È molto duro fare niente tutto il giorno, anzi penso anche di essere ingrassato. In certe situazioni si pensa a tutto meno che alla famiglia, perché pensare alla famiglia è dura. Si pensa ad altro e il tempo passa».(

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