Napoli. Quel sangue sulla maglia di Beethoven

Il corpo di Gennaro Fittipaldi, ucciso nei pressi dell'Università (Sergio Siano)
Il corpo di Gennaro Fittipaldi, ucciso nei pressi dell'Università (Sergio Siano)
di Giuseppe Montesano
Martedì 19 Maggio 2015, 15:42 - Ultimo agg. 20 Maggio, 11:15
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È avvenuto a pochi metri dalle facoltà di Lettere, Giurisprudenza e Filosofia della Federico II a via Porta di Massa: Gennaro Fittipaldi, un ventiquattrenne pregiudicato invischiato questioni di pizzo, è stato ucciso con un colpo alla testa che ha fatto accorrere alle finestre gli studenti. Niente bossoli, niente tracce.

Senza dubbio un regolamento di conti, quella che si chiama un’esecuzione. La foto che vedete - una foto d'autore, scattata dal bravissimo Sergio Siano - ritrae il ventiquattrenne dietro le sbarre di un cancello, con una maglietta che sembra coprirlo tutto, e sulla quale c’è il volto di Beethoven: sporco, stropicciato, insanguinato. E c’è qualcosa di irreale, in quel morto a pochi metri dall’università e con una maglietta che sembra la stessa che indossa Alex in Arancia Meccanica, ma anche qualcosa di urtantemente simbolico, perché sporca, insanguinata e stropicciata appare anche la Napoli che non si arrende al tanto peggio: una città e una regione che mandano i loro figli nelle Università, in cerca di un futuro attraverso quella cultura che sempre più appare indispensabile per costruire una buona modernità, una città di giovani e non giovani che lavorano, pensano, imparano, si sacrificano, e restano qui non per inerzia ma per passione.

Non si può più dire: i criminali si ammazzano tra loro, lasciamoli fare; non si può più dire che tanto «che fa»; non si può più fingere che una criminalità annidata nel cuore della città sia innocua o tollerabile. Non è giusto, ed è un errore.

A pochi metri da Porta di Massa e dall’Università, da via Mezzocannone a piazza Bellini e in quasi tutto il Centro Storico, qualcosa sta davvero rinascendo, e silenziosa, ostinata, la città cerca di essere più moderna e europea: le librerie non si arrendono alla crisi, e prendono licenze per creare di sera bar e centri di incontro; i negozi musicali a via San Sebastiano non vendono solo strumenti, ma fanno piccola ristorazione; come in tutte le capitali d’Europa della cultura, si intrecciano attività di artigianato culturale a intrattenimento: e spesso, ci si vada per vederlo con i propri occhi, là ci lavorano dei giovani, i piccoli imprenditori o gli studenti lavoratori che tutti invochiamo, e che in silenzio e da soli ridanno vita al centro storico.

Perché questo piccolo fervore, che esiste, deve essere mortificato dalla criminalità? Come può l’imprenditoria prosperare se soggetta a pizzi e a vessazioni? Perché chi vuole bonificare questa città deve trascinarsi come una palla al piede una criminalità nefasta non solo perché uccide col sangue, ma perché strangola la voglia di fare? In quella zona che sta a poche decine di metri dall’esecuzione di Gennaro Fittipaldi ci sono Università ancora prestigiose, c’è un Museo archeologico che non ha eguali in Europa, ci sono palazzi e chiese e quadri straordinari che vanno dal Medioevo al Rinascimento al Barocco al Settecento, ci sono scavi con mercati e teatri romani: e rinascono le attività commerciali. Non si può minimizzare l’impatto della criminalità su tutto questo: sarebbe un crimine politico.

Se non ci fosse stata un’esecuzione, e si fosse sparato nella folla, ora saremmo qui a piangere gli studenti innocenti ammazzati «per caso»: e anche solo pensare una cosa del genere dovrebbe farci rabbrividire, e riflettere su un «per caso» che diventa troppo spesso un lavarsi le mani. Attenzione, è anche da episodi come l’uccisione del ventiquattrenne davanti alla Federico II, che nasce la rassegnazione e si fa strada il fatalismo: questi episodi fanno sì che i media di una certa Italia interessata a questa visione ci leggano come eternamente inchiodati ai nostri mali, irrecuperabilmente folclorici e non seri, spingendo per riflesso noi stessi a vederci in uno specchio distorto. Non possiamo permetterci questo. Non si tratta di ripristinare la «cartolina» Napoli, sarebbe sciocco e illusorio: ma perché non permettere alla città che cerca di risollevarsi di farlo con tutte le sue energie, come accadrebbe in un’altra capitale culturale?

La verità dovremmo dircela da soli: e la verità è che non serve fare spallucce di fronte a una criminalità che si ammazza nel pieno di un Centro Storico unico al mondo, che non si dovrebbe neanche pensare che ciò non ci riguarda e riguarda «loro», e che tanto è così da sempre. Normale non è la città con Beethoven stropicciato, sporco, insanguinato: normale è l’altra città, quella che ascolta Beethoven e Pino Daniele, va a sentire Servillo e studia nelle Università, apre locali innovativi e lavora con idee nuove: e cerca, sia pure con incertezze e errori, di risalire a galla. Ma bisogna difenderla e coltivarla, quella città, e darle respiro. Perché il futuro è là.

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