Birmania, il golpe e il silenzio di Aung San Suu Kyi sui rohingya

Birmania, il golpe e il silenzio di Aung San Suu Kyi sui rohingya
di Erminia Voccia
Martedì 2 Febbraio 2021, 20:00
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Il Myanmar sembrava aver imboccato la strada della democrazia, quando i militari avevano concesso parte del potere ai civili, per onorare il risultato elettorale che nel 2015 aveva premiato la Lega nazionale per la democrazia, partito della leader Aung San Suu Kyi. Ma in questi anni l’esercito ha conservato una grande fetta di potere nell'ex Birmania.

La “Signora”, come Suu Kyi viene affettuosamente chiamata dai suoi sostenitori, negli ultimi anni è stata aspramente criticata per non aver difeso apertamente l’etnia rohingya, la minoranza musulmana vittima di un'operazione di pulizia etnica da parte dell’esercito.

La figlia del padre dell’indipendenza birmana, il generale Suu Kyi morto nel 1947 per mano dei suoi oppositori, è conosciuta anche con l'appellativo di “orchidea d’acciaio” per la resistenza condotta durante i suoi 15 anni di arresti domiciliari e per la lotta non violenta a favore della democrazia, contro la giunta militare allora al potere.

Per questa lotta ha rinunciato anche ad andare nel Regno Unito dal marito in fin di vita, malato di cancro, e di salutarlo per l'ultima volta. Il timore, giustificato, era non poter più far ritorno in patria.

La soluzione per la crisi sui rohingya spettava al governo birmano, guidato di fatto da Aung San Suu Kyi, e all’esercito, su cui però la “Signora” non aveva un grande potere di influenza. Suu Kyi affermò a settembre 2017 di non essere in grado di bloccare le offensive dei militari contro i rohingya. Tanto che alcuni osservatori avevano denunciato la presenza di due governi nel Paese. I militari, come è noto, continuano a controllare il 25% dei seggi nel parlamento birmano e tre importanti ,inisteri: Difesa, Affari Interni e Affari di frontiera.

Il golpe del 1febbraio 2021 sembra dimostrare il falso impegno dell’esercito per l’instaurazione della democrazia. Ma pare dimostrare anche che i militari erano sempre più preoccupati dall’ascesa politica della Lega nazionale per la democrazia, che nel frattempo aveva accumulato sempre più consensi e aveva vinto le elezioni dello scorso novembre, guadagnando una maggioranza schiacciante in Parlamento. Il colpo di Stato in Myanmar potrebbe, inoltre, dimostrare che la “Signora” in questi anni abbia cercato di non far saltare il precario equilibrio politico birmano, ipotesi che avrebbe portato certamente a un’involuzione di quel processo democratico, parziale ed embrionale, iniziato nel 2011. Ogni errore da parte sua sarebbe stato pagato a carissimo prezzo. Aung San Suu Kyi è stata accusata di aver preso le parti dei militari davanti al tribunale dell’Aja per l’azione delle forze armate birmane contro i rohingya, perseguitati in patria e deportati in Bangladesh. E così l’icona internazionale ha perso smalto, senza tuttavia perdere appoggio all'interno del Myanmar. Evidentemente, questa strategia non ha funzionato: oggi Suu Kyi è di nuovo agli arresti e il Myanmar è ancora ostaggio dei militari. 

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