Così la tela di Francesco con Usa e Cuba ha ridisegnato il futuro delle Americhe

Così la tela di Francesco con Usa e Cuba ha ridisegnato il futuro delle Americhe
di Francesco Ruffini
Domenica 20 Settembre 2015, 22:43 - Ultimo agg. 21 Settembre, 17:45
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Sabato scorso durante i saluti che Papa Francesco, appena atterrato all’ Avana, scambiava con Raùl Castro, la banda dell’Esercito Popolare di Cuba suonava. Le note che la marziale formazione diffondeva tra i presenti alla cerimonia erano quelle, non da molti giornalisti riconosciute, dell’inno alla Vergine della Caridad del Cobre, patrona di Cuba. Poi, con calma, dopo il saluto alle bandiere e i colpi a salve dei cannoni, sono stati eseguiti gli inni nazionali e solo allora «Francisco y Raùl» (a Cuba, quando le cose si fanno serie, i titoli onorifici vanno in vacanza) hanno pronunciato due discorsi facendo spesso ricorso ad un concetto e ad un termine che, a quelle latitudini, pesa ancora come un macigno: Patria.



I SIMBOLI

Senza troppi sforzi, chi sta seguendo il terzo viaggio di un Papa di Roma nella “isla grande” dei Carabi, comprende che questa volta il Romano Pontefice vi è arrivato con una valigia carica di simboli. E’ il primo leader latino americano riconosciuto come tale a livello continentale: incarna la «casa grande», la patria comune che poco più di due secoli fa i vari “libertadores” indicavano ai popoli del Nuovo Continente come destino ultimo delle loro lotte per l’indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo. Lotte condotte da masse contadine portate in battaglia dal “libertador” di turno (quasi tutti, di formazione massonica) cantando l’inno alla Madonna patrona del loro Paese. E a questa ideale «casa grande», alla quale, con metodi spesso cinici e crudeli, per lunghi decenni, gli Stati Uniti hanno cercato di imporre la loro leadership, ha sicuramente alluso Barak Obama quando, annunciando il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Usa e Cuba, ha esclamato: «somos todos americanos». E anche in questo il primo presidente afroamericano degli Usa è stato bravo: nel fare propria la saggezza altrui.



E’ stato il cardinale di Cuba, Jaime Ortega y Alamino (che da giovane prete, ha avuto “diritto” a tagliare per due anni canna da zucchero in un “campo di rieducazione” comunista) a rivelare che il «nocciolo» della lettera da lui recapitata, per conto del Papa, al presidente Usa consisteva in un ammonimento: il vostro futuro in America latina, passa per Cuba. Liberare la «isla grande» da un «bloqueo», un embargo che da almeno vent’anni imbarazza tutti gli stati legati, a vario titolo, ad alleanze garantite dall’amministrazione americana significa restituire l’intero continente americano, dal Nord al Sud, ad un progetto politico ed economico globale, difeso da una leadership morale condivisa (la “laudato si’, l’enciclica di Papa Francesco non è un documento “verde” ma è una piattaforma sociale), con una pluralità di opinioni e di modelli di sviluppo che tendono comunque, ciascuno a proprio modo, verso forme sociali eque e sostenibili.



LA CASA GRANDE

Un progetto dove lo Stato più potente del pianeta può decidere di avere, su nuove basi, anche il ruolo che gli spetta. Ritornare nella «Patria» della «casa grande» americana, è un’ottima occasione per i nordamericani di liberarsi degli errori, compresi quelli sanguinosi, del passato. Con un “bonus” ulteriore. Chi ricorda i mesi confusi che hanno accompagnato la terribile vicenda, tra l’agosto del 1990 e il febbraio del 1991, del “desert storm” la prima invasione dell’Irak per volontà dell’amministrazione di Bush padre, la mamma di tutte le miserie che stiamo ancora vivendo, ricorda anche gli sforzi che la diplomazia vaticana di Giovanni Paolo II fece per non far cadere l’organizzazione internazionale nelle mani di una dottrina politica che vedeva il mondo secondo un monopolarismo a stelle e strisce.



Parte delle ignominie che il sistema mediatico d’oltreoceano ha riversato sulla Chiesa Cattolica e i suoi uomini sarebbero state descritte con maggiore oggettività se la Chiesa di Roma non avesse sposato, con determinazione, le ragioni del multilateralismo appoggiando la sua azione prima su un asse franco-tedesco e poi, pian piano, verso il Palazzo di Vetro. Dove, da anni, la Santa Sede promuove una riforma delle Nazioni Unite che liberi l’Onu dalle strette del Consiglio di Sicurezza, da quel nodo scorsoio che le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale continuano a stringere intorno ad un mondo di ormai 196 Stati. Papa Francesco parlerà prima al Congresso, poi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Appena qualche ora dopo di lui, sarà la volta di Vladimir Putin. Il multilateralismo sta tornando nella sua casa custodito dentro la valigia di un Papa. Paradossale, ma è così.

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