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Ucraina, padre fugge da un campo di prigionia russo per salvare i figli dall’adozione

Il fil rouge invisibile: l'amore di un genitore

di Mattia Ronsisvalle
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 30 Novembre 2022, 12:41
5 Minuti di Lettura

Un padre di Mariupol è sopravvissuto a un campo di prigionia russo e ha viaggiato fino a Mosca per «salvare» i suoi figli che in cinque giorni sarebbero stati adottati.

«Papà, hai cinque giorni prima che ci adottino». Sono queste le parole dei figli di Yevhen, ex soldato ucraino a contratto. Vive a Mariupol insieme ai suoi tre figli: Matvey di 12 anni, Sviatoslava di 7 anni e Alexandra di 5 anni.
I piccoli sono cresciuti con il padre da quando lui ha divorziato con la moglie.
All’inizio dell’invasione russa, Yevhen e i suoi figli hanno trascorso un mese a nascondersi dai proiettili russi nei seminterrati; poi sono stati evacuati con la forza insieme ad altri residenti di Mariupol. Alla fine, Yevhen è stato rinchiuso in un campo di prigionia a Olenivka, mentre i suoi figli sono stati portati temporaneamente in una sstruttura vicino alla capitale della Russia  Mosca.

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Ma Yevhen come è sopravvissuto e come ha «salvato» i suoi figli da un’adozione certa?

I primi tempi

Quando le sirene antiaeree hanno suonato nella sciagurata mattina del 24 febbraio, il trentanovenne Yevhen stava lavorando come gruista nel cantiere di competenza.
«Quando ho saputo che la guerra era iniziata – racconta Yevhen al canale d’informazione russo Meduza - ho pensato subito a cosa fare con i bambini. Sono uscito di corsa dal lavoro e mi sono diretto a casa. Ho preso tutto l'essenziale: cibo da cucinare in fretta, acqua e vestiti caldi. Poi ci trasferimmo nel seminterrato. Non ho nemmeno dovuto spiegare ai bambini cosa stava succedendo: hanno capito subito. Ho solo cercato di confortarli».

Il padre rivela la sua preoccupazione sui bombardamenti. Sentiva che le esplosioni erano sempre più vicine e che se avessero colpito l’edificio dove si stavano rifugiando sarebbero rimasti sepolti vivi sotto le macerie.
Dopo aver passato notti insonni dai nonni materni dei piccoli, padre e figli si sono trasferiti a casa del datore di lavoro di Yevhen dove sono rimasti fino al 19 marzo.

«Quando eravamo nel seminterrato dei miei nonni – racconta Matvey, figlio di Yevhen - correvamo e giocavamo con un'altra bambina che era lì. Se c’era l’elettricità disegnavamo, altrimenti utilizzavamo le torce elettriche. Ho detto alle mie sorelline che sarebbe andato tutto bene, che presto sarebbe finito tutto e che i suoni erano solo tuoni e non esplosioni. All'inizio mi hanno creduto».

Tevhen racconta che lasciare Mariupol non era così semplice: non aveva un’auto e nessuno era disposto a portarlo con sé seppur pagando.

Un «semplice interrogatorio»

Pensieri e ragionamenti che sono stati spenti come un interruttore quando il 7 aprile una granata ha colpito la casa dove vivevano. A quel punto, Yevhen ha deciso di portare i bambini all’ospedale dove sono entrati due soldati che indossavano bande bianche e i galloni dell'autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk. Le milizie russe hanno controllato i documenti di Yevhen notando che era un ex militare per poi ripresentarsi il giorno dopo per portarlo al villaggio di Beximme, vicino alla città di Novoazovsk, dove avevano già interrogato altre persone in una base militare.

«Dopo avermi interrogato, i soldati russi mi hanno legato – sottolinea Yevhen - mi hanno messo un berretto da baseball sul viso e mi hanno fatto salire su un'auto. Se avessi mentito mi avrebbero spaccato un ginocchio o pugnalato da qualche parte».
In seguito l’uomo è stato trasportato all'Unità per la criminalità organizzata di Donetsk, dove l’hanno fotografato e hanno preso le sue impronte digitali.

Dopo di che, un investigatore lo ha richiamato per dirgli che c’era qualcosa di sbagliato nella sua dichiarazione e che doveva firmare la versione corretta. Poi Yevhen è stato portato in diverse stazioni di polizia di Donetsk per poi essere trasferito in un centro di detenzione.
«Una guardia mi chiese se avessi ucciso un russo: non avevo neanche impugnato una pistola. Mi ha afferrato per il collo, mi ha sbattuto la testa contro le sbarre, poi ha iniziato a prendermi a calci. Non gli piaceva il mio aspetto», racconta Yevhen. L’uomo ha poi firmato un modulo in cui era scritto che non aveva ricevuto nessun trattamento violento nella struttura di detenzione. Da lì il padre ucraino è stato portato a Olenikva.

Il fil rouge invisibile: l'amore di un genitore

Matvey racconta che il padre aveva il telefono fuori uso e non potevano chiamarlo. I figli di Yevhen, sprovvisti di documenti, sono stati portati da Bezimenne all'ospedale centrale di Novoazovsk. Un passaggio chiave perché quando Yenhev viene rilasciato, dopo 45 giorni a Olenivka, arriva a Donetsk e si sente dire dai servizi sociali che i bambini erano stati portati a Mosca per una visita sanitaria e che sarebbero tornati presto. Ma quel «presto» si è trasformato in giorni e padre e figli hanno continuato a parlare al telefono. Poi Matvey telefonò a Matvey: «Papà, hai cinque giorni al massimo per venire a prenderci, altrimenti ci adotteranno».
Gli assistenti sociali avevano proposto di mandarli in una famiglia o in un orfanotrofio. Grazie all’aiuto di alcuni volontari russi Yevhen è potuto tornare a Mosca per recuperare i suoi figli.
«Mentre ero in viaggio, un rappresentante del Commissariato russo per i diritti dei bambini mi ha contattato e mi ha detto: "Hai sollevato un tale polverone in tutto il Paese!". Allora ho detto: "Sì, stanno cercando di adottare i miei figli!". E lui: "Ma di cosa stai parlando? I tuoi figli hanno solo capito male". "Sì, certo...e io sono solo un bifolco", gli dico». Ora Yevhen e i suoi figli vivono a Riga, in Lettonia: sono uniti e lottano il loro amore. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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