Tra tanti striscioni, un paio mi hanno aperto le tasche degli occhi, mi sono ritrovata ad asciugarmeli sorridendo. Il primo sta ai Quartieri Spagnoli: «E mo' comme c''o raccont' o' nonno». L'altro l'ho visto sui social, dice dell'attesa, del sogno e di chi non c'è più: «Chesta festa è pure pe' vvuje». Prima di questo campionato, non guardavo una partita del Napoli da tempo e cioè dall'ultima volta in cui ho potuto parlarne con mio padre. Ho cancellato come andò in campo allora: vincemmo, perdemmo o pareggiammo, non lo so. So che alla giocata successiva lui se n'era già andato e io, tornata alla vita quotidiana, non riuscii a tornare alla partita. Monca di qualcuno verso cui voltarmi, dire: «Hai visto che ha fatto?», la stagione di tifosa mi sembrò conclusa insieme a quella di figlia. Per vincere la mancanza giocai in difesa, ma ignoravo di quante piccole mine fosse disseminato il campo dell'assenza di una persona a cui hai voluto bene.
È da settembre che queste cariche saltano in me ad ogni gol.