Clan Cuomo, chi piazzò la bomba
fu denunciato dal complice

Clan Cuomo, chi piazzò la bomba fu denunciato dal complice
di Nicola Sorrentino
Martedì 26 Luglio 2022, 12:30 - Ultimo agg. 12:41
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Uno dei due ragazzi accusati di aver piazzato una bomba contro il ristorante di Luigi Cuomo, a Firenze, il 23 febbraio 2021, denunciò ore dopo il suo complice una volta ritornati a Nocera Inferiore. È il retroscena che emerge dall’inchiesta sul clan Cuomo dell’Antimafia di Firenze, ora ricostruito dalla Cassazione con le motivazioni con le quali viene rigettato il ricorso della Procura. Il Pm aveva chiesto il carcere per Sabato Mariniello. Il giovane nocerino era stato liberato dai giudici del Riesame, con annullamento dell’ordinanza del gip per carenza di esigenze cautelari. Questo, in ragione della denuncia che il ragazzo sporse nei confronti di Luigi D’Auria, l’altro nocerino quella sera in sua compagnia a Firenze, accusato di aver piazzato materialmente la bomba contro il ristorante di Cuomo. «L’indagato - spiegò il Riesame - resosi conto che le indagini avviate avrebbero presto permesso di individuarlo come partecipe alla spedizione intimidatoria, si era autodenunciato, coinvolgendo il suo complice, cui peraltro aveva addebitato la responsabilità assorbente dell’occorso». Quel comportamento, «ancorché dettato verosimilmente da intenti utilitaristici» - si legge - avrebbe di fatto troncato il rapporto fiduciario esistente con il gruppo malavitoso e con il complice stesso, esponendo l’indagato a rappresaglie, messe addirittura in atto». I due sono considerati dalla Dda vicini al «clan di Piedimonte», il quartiere di Nocera avverso a quello dei fratelli Cuomo. La cui guerra rappresenta il cuore dell’inchiesta di Firenze. 

La Procura aveva fatto ricorso contro la scarcerazione di Mariniello, sostenendo che l’indagato si fosse autodenunciato per «alleggerire la sua posizione, dichiarando di essere stato percosso e minacciato da D’Auria, mentre i filmati attestavano che egli aveva partecipato ai fatti con piena libertà di autodeterminarsi - e avrebbe, ciò nonostante, incongruamente individuato un profilo di resipiscenza, capace di azzerare il rischio di reiterazione dei reati».

In sostanza, «non avrebbe reso una vera e propria collaborazione con la giustizia, l’unica che sarebbe stata in grado di attestare la recisione dei contatti con il gruppo malavitoso». Per la Cassazione il ricorso va rigettato, vista la corretta valutazione del Riesame: «La verosimile rescissione del vincolo che legava l’indagato al gruppo criminale è, allo stato, ragione adeguata di esclusione delle esigenze cautelari, indipendentemente da ogni altro ragionamento sulla natura più o meno utilitaristica dei comportamenti sfociati in tale esito, e delle corrispondenti ragioni, e da ogni altro giudizio sulla parziarietà delle ammissioni dell’indagato e, di conseguenza, sulla complessiva attendibilità del suo narrato, tanto in chiave auto-assolutoria che in chiave etero-accusatoria, su cui farà luce il successivo giudizio». I due rischiano 2 anni e 6 mesi in abbreviato: a settembre la sentenza.  

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