Ps5, un sassofono verace «tra Senese e l'afrobeat»

I Ps5
I Ps5
di Federico Vacalebre
Giovedì 3 Giugno 2021, 21:58 - Ultimo agg. 22:35
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A 40 anni Pietro Santangelo ha deciso di metterci la faccia e il nome. Dopo essersi «nascosto» per una ventina d'anni dietro il marchio Slivovitz, premiata band partenopea di avantjazz da esportazione, si è fatto bandleader con i PS5, il Pietro Santangelo quintet, all'esordio con l'album - in digitale su tutte le piattaforme, ma anche su vinile azzurro in edizione limitata - «Unconscious collective», etichetta anticipato da un singolo, «Transe napolitaine» (Hyperjazz Records) che gettava il ponte tra due sassofoni superblack: quello di James Senese e quello di Fela Anikulapo Kuti.
Americano di Napoli, come tutti noi, ma senza voler fare l'americano, Santangelo tiene insieme il neapolitan power di Napoli Centrale, l'isteria metro-napoletana dei Bisca (un altro sax, quello di Sergio «Serio» Maglietta»), ma anche le rivoluzioni di Ornette Coleman, i suoni sghembi di John Zorn, i parossismi dell'afrobeat...
Un progetto strumentale, che non cerca la scorciatoia della forma canzone, ma si inserisce in un trend che intercetta l'interesse, molto sentito a Londra e Parigi, per certo nu jazz dai profumi etnici: «Il 50% del mio cocktail è dovuto alla città dove sono nato, ai neri a metà e ai diversamente neri. Senese, certo, un alieno, e poi Larry Nocella, e poi e ancora tanti sassofonisti: il mio maestro Giulio Martino, Daniele Sepe che giocava tra non jazz e world music, Marco Zurzolo... Li ho visti dal vivo, ho studiato i loro dischi ed il loro suono, ho capito quanto dobbiamo a Scalinatella e a Pino Daniele», racconta Santangelo, che si porta dietro anche l'esperimento di un trio senza strumento armonico: «Sepe era il mio Peter Gabriel e la mia strada verso una world music verace, suonando con i Nu Guinea ho capito come ci fosse una Napoli ancora da scoprire e da presentare al mondo, suonando con Marzouk Mejiri mi sono immerso nel Maghreb, suonando con Giovanni Imparato nel suono afrocubano».
Sistemate metà delle influenze, «l'altra metà del suono arriva da tutto il mondo. I jazzisti e Fela, dj e band emergenti, maestri riconosciuti e scoperte dell'ultimo momento».
Santangelo guida le danze - e il termine non è casuale, un remix dub di Adrian Sherwood ci starebbe benissimo - verso una trance post-moderna, riparte da «Campagna» e «Theacher don't teach me nonsense» senza aver bisogno di parole, consuma l'ancia con l'obliquo furore che fu dei Blurt o dei Lounge Lizards. Allora parlammo di no wave o di no jazz, oggi sembra l'unico suono capace di salvare il jazz dai musei, di riportarlo ai giovani, al suo antico ruolo di musica per scuotere i corpi.
Eccola la «Transe napolitaine», tra Lapassade e De Martino, Tony Allen e Franco Del Prete, Enzo Avitabile (altro sax di riferimento, si intende) e Manu Dibango. Otto brani originali, con due sassofoni (Pietro suona tenore e soprano, Giuseppe Giroffi contralto e baritono) liberi di (s)variare su trame ritmiche iterative e circolari affidate al basso di Vincenzo Lamagna e alla batteria di Salvatore Rainone.
L'antica Partenope, la Nigeria del «black president», i tamburi da santero yoruba di Paolo Batà Bianconcini, spezie che sanno di «Ethiopiquès» e di Giamaica. Di Napoli città aperta, né capitale né periferia, malafemmina che a tutti si diede e si dà, per piacere, per dovere, per sopravvivere, per rinnovare il proprio suono.
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