Raiz e Mesolella, canzoni senza confini nel nome del "vino terrone"

Raiz e Fausto Mesolella in sala di registrazione
Raiz e Fausto Mesolella in sala di registrazione
di Federico Vacalebre
Sabato 17 Maggio 2014, 15:22 - Ultimo agg. 15:24
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Da Wop a Dago Red il passo breve. Sono due espressioni dispregiative usate in America per indicare gli immigrati italiani: la prima (acronimo di with out passport) stato titolo di una canzone e di una album di Raiz, ma anche del suo primo tour con Fausto Mesolella; la seconda (presa in prestito da una raccolta di racconti di John Fante, e altro appellativo razzista che indentifica un popolo con il suo ”vino terrone”) non solo il titolo, ma anche il senso, del primo cd (con giro di concerti annesso), appena uscito per la Cni, della coppia formata dal cantante degli Almamegretta e dal chitarrista degli Avion Travel. «Ci piaceva molto l’idea del vino rosso paesano, quello che garba poco ai palati raffinati dei sommelier che vorrebbero imporre anche a tavola un gusto unificato, ma forte, sincero ed inebriante», spiega Rino, «così abbiamo rivisto a nostro modo classici della canzone napoletana lasciando lo spazio aperto alla contaminazione con ciò che partenopeo non è ma che altrettanto ci appartiene. Sin dagli inizi con gli Alma ho praticato la strada dell’elogio delle radici che non si rifugiava in un purismo senza senso. In questo lavoro la nostra anima rock, soul, blues e reggae fa pace - o almeno ci prova - con l’altra sua parte, quella che appartiene alla canzone della terra dove siamo nati e cresciuti».

Il gioco, infatti, è quello di far convivere le canzoni pensando alle convivenze dei popoli, delle culture, «anche se è difficile chiamare cultura, o religione, qualcosa che divide piuttosto che unire, che è causa di morte e non di vita», riflette Mesolella, che tra chitarre acustiche ed elettriche, accordi e assoli, dolcezze melodiche ed asprezze da rockettaro d’antan regala gli spazi ideali per la voce profonda del figlio di Annibale, che canta forse come non ha fatto mai, controllando i toni più scuri, non per trattenerli però. Gli altri strumenti sono ridotti all’osso: una batteria (Mimì Ciaramella) qua, un pianoforte là (Rita Marcotulli), una spruzzatina di elettronica (Eraldo Bernocchi) per gradire.

Lanciato da una emozionante versione di «Ipocrisia», il successo di Angela Luce popolarissimo anche in Sudamerida, «Dago red» è un mash-up di canzoni così vicine, così lontane: «Lacreme napulitane» si fonde con «Immigrant punk» dei Gogol Bordello, la «Carmela» di Bruni e Palomba si trova di fronte il Leonard Cohen di «I’m you man»: «Tutto scorre senza confini musicali, culturali ed ideologici: ”Maruzzella”, ad esempio, fa un bagno nel mediterraneo orientale, reinventata in ebraico», spiega Raiz, che si diverte da «turco napoletano» di decurtisiana memoria: «Questo disco è esattamente quello che siamo noi: due artigiani della canzone che propongono una visione della musica (e della vita) senza pregiudizi di nessun tipo».

Mesolella parla di «psicanalisi sonica per guarire dalla schizofrenia di chi ama il suono partenopeo e quello di importazione». Ecco perché «’a muntagna», il monte di «Tu ca nun chiagne», arriva dopo quello che scalano gli Who in «See me, feel me». E perché il pacifismo dolente di «’O surdato ’nnammurato» può sublimarsi nel George Harrison di «Give me love» o «Campagna» dei Napoli Centrale trovare una logica continuazione marleyana in «Rastaman chant». E nella conclusiva «Arrivederci Roma» la citazione del «paisà» Dean Martin è un po’ citazione e un po’ imitazione, un po’ nostalgia e un po’ cin cin con il bicchiere pieno di una «gnostro» paesano, un bel bicchiere di «dago red», di rosso terrone.

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