Riccardo Muti a Pompei: «Sono queste le nostre radici»

«È un luogo che conosco e amo fin da quando ero bambino»

Il maestro Riccardo Muti
Il maestro Riccardo Muti
di Donatella Longobardi
Venerdì 7 Luglio 2023, 07:00 - Ultimo agg. 8 Luglio, 08:30
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«È un luogo che conosco e amo fin da quando ero bambino, al santuario mariano feci la prima comunione.... Tra i resti archeologici della città romana andavo ai tempi in cui frequentavo il liceo Vittorio Emanuele, ricordano le nostre radici, le origini della nostra cultura... Nel 2010 ho inaugurato il restaurato teatro grande con la Cherubini e ci sono tornato quattro anni fa con mia figlia Chiara mentre preparavamo “Così fan tutte” al San Carlo». Riccardo Muti racconta la «sua» Pompei. Martedì 11 luglio, alle 21.30, il maestro chiuderà proprio al teatro grande degli scavi il viaggio delle Vie dell'Amicizia 2023, l'ormai tradizionale appuntamento del «Ravenna festival» che dal 1997 a Sarajevo, collega la città bizantina con luoghi particolarmente sensibili. Sempre nel segno della musica e della solidarietà. Dalla New York ferita dall'attentato alle Torri Gemelle a Erevan, da Damasco a Kiev, Nairobi e Lourdes. Anche quest'anno Muti dirigerà l'Orchestra giovanile Cherubini in un percorso che individua le difficoltà dei nostri giorni. E il suo cachet sarà devoluto al museo Carlo Zauli, di Faenza, danneggiato dall'alluvione in Romagna.

Si parte questa sera da Ravenna, si prosegue domani e domenica per la Giordania con una sosta nel campo profughi di Za'atari, ai confini con la Siria, e un concerto nel teatro romano di Jerash.

La Pompei sepolta dalla sabbia del deserto si collega così con la Pompei sepolta dalla cenere del Vesuvio sulle rive di quel Mediterraneo ancora oggi solcato da un'umanità in cerca di riscatto.

È così, maestro Muti?
«Sì. E non sembri strano che i romani, appena conquistavano una nuova terra, per prima cosa vi costruivano un teatro, luogo di aggregazione e cultura. Un luogo in cui un popolo sperimentava la bellezza e l'importanza dell'integrazione. Per i romani erano importanti panem et circenses, la farina e le feste. Poi i Borbone aggiunsero un'altra “f”, ma questa è un'altra storia».

Secondo il direttore di Pompei, Zuchtriegel, la forma comune dei due teatri di Jerash, l'antica Gerasa, e Pompei, non è casuale: è il risultato di un processo di integrazione reso possibile da una rete di rapporti e scambi all'interno dell'impero romano.
«Certamente. Ho conosciuto Zuchtriegel qualche anno fa a Paestum dove pure facemmo tappa con un viaggio dell'Amicizia in piena pandemia. E ho avuto modo di conoscere il grande lavoro che ha fatto per valorizzare il nostro patrimonio artistico. Io dirigo molto all'estero, apprezzo il lavoro degli stranieri in Italia e di persone come Zuchtriegel o Bellenger a Capodimonte che offrono grande competenza e amore per Napoli».

Lei è alla vigilia di una visita in uno dei più grandi campi profughi del Medio Oriente, sembra che la parola chiave di questo viaggio sia «integrazione».
«Con grande generosità in Giordania, dove ci hanno gentilmente invitati, hanno realizzato questo enorme campo dove vivono circa 80.000 persone, un esempio del fatto che quando si accoglie bisogna farlo con decoro e umanità, non buttare gente per strada solo per mettersi il cuore in pace. Noi porteremo loro alcuni strumenti musicali e un po' della nostra musica. Nove musicisti giordani, invece, suoneranno tutto il programma del concerto insieme ai giovani della Cherubini».

Ricordiamo la locandina, la stessa per Pompei: il secondo atto da «Orfeo ed Euridice» di Gluck con il controtenore Filippo Mineccia, «Casta diva» dalla «Norma» di Bellini con il soprano Monica Conesa e il «Canto del destino» di Brahms. A queste pagine si intervallano momenti musicali le cui radici affondano nel Medio Oriente, affidati agli artisti siriani Mirna Kassis e François Razek-Bitar e alle voci giordane Ady Naber e Zain Awad.
«Innanzitutto “Orfeo”, un mito, un personaggio dell'antichità classica che mi sembra molto adatto a questi scenari, una storia d'amore eterno che va oltre il tempo e le contingenze. “Casta diva” è naturalmente la Luna, speriamo faccia capolino anche a Pompei come a Paestum. Penso ai versi di Salvatore Di Giacomo alla Luna, a quel filo d'argento che si specchia nel mare di Napoli. Mi piace sottolineare che si tratta di un momento di musica alta composta da un musicista come Bellini che era siciliano di nascita ma era legato al San Pietro a Majella, a Napoli, dove ho studiato anch'io...».

Poi lo «Schicksalslied» op. 54 che Brahms scrisse su versi di Hölderlin.
«L'ho voluto inserire perché faceva parte del programma dell'ormai storico primo concerto dell'Amicizia a Sarajevo, quando arrivammo a suonare in una città dove erano ancora molto evidenti i segni lasciati dalla guerra. È una meditazione sul destino dell'uomo, sul rapporto con il divino e sul mistero della morte. Ma è anche un meraviglioso canto di speranza che si conclude nella tonalità della luce, il do maggiore. Un messaggio di pace verso un destino radioso: “Sciolti dal destino, come il poppante/ che dorme, respirano gli immortali”. E di speranza per il futuro il mondo ha tanto bisogno».

E il suo futuro, maestro? Lei dopo tredici anni ha appena concluso il suo rapporto come direttore musicale della Chicago Symphony dove è stato nominato direttore onorario a vita, avrà più tempo per dedicarsi ad altro?
«No, paradossalmente non ho più tempo. Anzi. Visto che sarei stato libero da Chicago si sono fatti avanti tutti, dai Bayerische all'Orchestre de France, alla Philharmonia di Londra. Con i Wiener ho impegni fino al 2028, l'anno prossimo celebrerò con loro i duecento anni della Nona sinfonia di Beethoven, una cosa che mi inorgoglisce particolarmente. E poi ci sono sempre i Chicago coi quali verrò in tournée in Italia a gennaio con tappe a Milano, Torino e Roma».

E l'opera?
«Farò un nuovo “Ballo in maschera” a Torino con la regia di un napoletano, Andrea De Rosa, col quale ho collaborato in passato. Poi riprendo il “Don Giovanni” con la regia di mia figlia Chiara a Palermo. Ma la cosa cui tengo di più è la mia accademia per giovani direttori d'orchestra, una full immersion di dieci giorni dedicata a Bellini che farò a Milano alla Fondazione Prada, in novembre. Oggi purtroppo l'opera italiana è vista come intrattenimento e quella tedesca come momento altamente culturale. Dobbiamo riappropriarci del ruolo della nostra cultura musicale e darle il peso che merita. Bisogna garantire attenzione e qualità a chi lavora nei teatri, ai musicisti, orchestrali e coristi, ma anche a tecnici, scenografi, costumisti. Sono loro il vero patrimonio dei nostri teatri, non i grandi cantanti che si esibiscono una sera e poi vanno via». 

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