
Sumaya Abdel Qader
Come è possibile, secondo lei, che in Italia convivano queste due tendenze: da un lato, un pubblico, anche vasto, che si appassiona alla storia e al personaggio di Sana; e, dall’altro, una parte dell’opinione pubblica che condanna e giudica, anche con messaggi carichi di odio, Silvia Romano?
«In generale, è normale avere posizioni diverse, il punto da "attenzionare" è quando si polarizzano all'estremo e diventano intolleranti l'una verso l'altra o al peggio passano ad un'espressione violenta, il rischio che degeneri in altro è reale. Nel quadro descritto (chi si appassiona a Sana e chi si scaglia contro Silvia Romano) c'è anche un divario generazionale, i primi sono mediamente i giovani, i secondi sono tendenzialmente gli adulti e anziani. Le nuove generazioni sono più aperte alla pluralità, meno gli adulti che sono anche portatori di ideologie del secolo scorso».
Perché ritiene che i giovani o i giovanissimi in Italia siano più aperti rispetto alle generazioni precedenti nell’accogliere i loro coetanei di fede diversa e dove potrebbe portare tale apertura?
«Sicuramente sono più aperti, globalizzati, abituati a esplorare la diversità, anche grazie ai social che hanno avvicinato sempre più i giovani di tutto il mondo. Sono coinvolti in cause trasversali, come quella ambientale, e sono certa che potranno offrirci molto, vanno ascoltati di più e messi nelle condizioni di aspirare a portare il loro sguardo e nuove competenze nelle sedi dove il cambiamento può avvenire».
Come si può spiegare la frase che pronuncia Sana: “Se ti dicessi che per me portare il velo è una scelta femminista?”. Spiegarla a chi ancora crede che indossare il velo sia il risultato di una costrizione o di un “lavaggio del cervello”?
«La frase è una provocazione ma anche no. Vuol destare l'attenzione di chi ascolta e dire "non siamo tutte costrette, c'è un percorso di emancipazione e autodeterminazione che prevede anche la dimensione spirituale, io l'ho scelto in autonomia, non sono condizionata". Il che non nega che ci siano donne musulmane vittime di retaggi culturali patriarcali, misogini e maschilisti, ma non si può pensare di generalizzare. C'è tutto un filone di femminismo delle donne musulmane praticanti che cerca di recuperare il messaggio originale dell'Islam che rendeva le donne libere ad autodeterminarsi, contro i retaggi culturali locali tradizionali che invece ledono molti diritti delle donne. Poi, credere o meno ad una donna che dice di essere libera, quello sta al buon senso di chi la guarda. Ma ammetto che è frustrante pensare che ci sia chi è talmente condizionato dalle sue ideologie/idee da non essere capace di riconoscere a una donna la bontà della sua parola».
«Scegliere. Poter scegliere chi essere e cosa fare, come credere e praticare o meno. È la quotidianità della vita di milioni di donne musulmane che compiono i loro percorsi a prescindere dal sentirsi femminista o meno, ma libere di scegliere (nello studio, lavoro, famiglia, scelte religiose...). È ciò che conta».
C’è un punto della quarta stagione in cui Sana si confronta con Martino sui temi dell’omosessualità e della religione islamica. Dopo questo confronto, Sana chiede scusa al suo amico. Qual è ora l’atteggiamento dei musulmani verso l’omosessualità, sta cambiando, secondo lei, il modo di considerarla?
«Il confronto tra Sana e Martino è il confronto di chi appartiene a minoranze e sa cosa vuol dire la discriminazione per le proprie scelte non mainstream. Un percorso di sofferenza e fatica, pazienza e rabbia, battaglie vinte e perse. Il mondo musulmano comincia ora ad interfacciarsi al tema dell'omosessualità e in generale alla richiesta delle comunità lgbt+ di essere riconosciute senza discriminazione. Come è successo per l'Italia o l'Europa, è un percorso in divenire che trova rigidità e avversione come solidarietà e sostegno. I prossimi anni saranno rivelatori».
Questa serie scardina dei preconcetti e demolisce alcuni pregiudizi. A che punto è, secondo lei, il processo di integrazione dei musulmani in Italia, per le donne è ancora diverso?
«Questa serie aiuta alla normalizzazione delle specificità. I protagonisti di Skam Italia non sono da integrare, lo sono già naturalmente come ogni coetaneo, sono la quotidianità, la realtà di fatto. E i musulmani sono realtà inserita e ben inclusa, specie la parte più giovane. Certo, ci sono criticità ma nulla, al momento attuale, che possa destare allarmi. Basti pensare al periodo di quarantena: le comunità islamiche hanno donato oltre 800mila euro ad ospedali locali, messo a disposizione centinaia di volontari per servizi pubblici e privati, hanno trasformato i centri islamici in punti di raccolta e distribuzione pacchi cibo in supporto a Comuni e associazioni benefiche, hanno chiuso per primi i luoghi di preghiera e hanno riaperto per ultimi per senso di responsabilità collettiva. Mi pare che sia più che evidente che si sentano parte integrante di questo paese. Il problema è che in Italia non è ancora stata siglata l'Intesa con le comunità islamiche, quello strumento politico/giuridico che riconosce le religioni diverse da quella cattolica in modo ufficiale e che permette di garantire con più certezza e forza i diritti delle minoranze religiose. Poi c'è il tema delle seconde generazioni, musulmane o meno, che soffrono ancora la legge per l'acquisizione della cittadinanza, legge di un altro tempo e secolo che non risponde più alle esigenze e contesto di oggi».
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