Daniele Del Giudice, narrare e vedere

«Per ottenere una vera rappresentazione realistica devi fare un'operazione di pura fantasia»

Daniele Del Giudice
Daniele Del Giudice
di Generoso Picone
Giovedì 15 Febbraio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 16 Febbraio, 07:10
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Chissà che cosa avrebbe scritto Daniele Del Giudice della giornata di Hirayama. Che effetto avrebbe avuto in lui la visione di «Perfect day», l'acribia zen con cui il protagonista del film di Wenders seleziona le fotografie della luce che filtra tra le foglie degli alberi dei parchi e fa della sua scatola di latta un catalogo dell'inconscio ottico declinato nella liturgia Komorebi. Magari questa sorta di Bartleby di Melville arrivato da Wall Street nella Tokyo dei grattacieli e delle baracche, di cui non si saprà mai verso quale passato abbia pronunciato il suo «avrei preferenza di no», gli avrebbe ricordato il suo Ira Epstein di Atlante occidentale quando si interroga su che cosa sia un buon vedere o un cattivo vedere dopo che il visivo ha operato una profonda e destabilizzante mutazione antropologica legata al diffondersi della materia immateriale. Forse avrebbe ribadito l'affermazione dell'amato Joseph Conrad, che «tutta l'arte narrativa è magia, evocazione dell'invisibile in forme persuasive, illuminanti, familiari e sorprendenti», aggiungendo la raccomandazione a riconoscere il valore etico attribuito all'esattezza nell'uso delle parole. Conrad gli aveva rivelato negli Avvisi ai naviganti, il più efficare manuale di scrittura, testi che sono fuori dalla letteratura perché non suscitano emozioni ma corrispondono all'ideale dell'assoluta responsabilità, dettati da chi crede all'imperativo di far bene il proprio lavoro sempre e comunque. Alla maniera di Libertino Faussone in La chiave a stella di Primo Levi. O di Hirayama in «Perfect day».

«Le immagini che ciascuno porta con sé, e la cui ossessività scopre andando avanti nella vita, rappresentano un personale patrimonio di mistero», disse Del Giudice in un intervento a un convegno letterario a Ferrara nel settembre del 1991, sviluppando lì i temi anticipati in un articolo per il «Corriere della sera» del 17 febbraio. «Elogio dell'ombra» il titolo, molto wendersiano. Ora il brano è denominato Narrare e vedere e assieme ad altri saggi è contenuto in Del narrare, raccolta curata da Enzo Rammairone

A 28 mesi dalla morte dell'autore che aveva esordito 40 anni fa con Lo stadio di Wimbledon, comprende materiali ordinati in una sezione dedicata a scrittori - da Levi a Verne passando per Calvino, Zweig, Bernhard e Conrad - e in un'altra dove sono disposti interventi dedicati alle questioni relative alla scrittura, ponendo il dubbio pregiudiziale addirittura sulla eventualità di un discorso sull'atto del narrare, «irriducibile a ogni teoresi, a ogni storiografia, a ogni ermeneutica..., perfino quando è lo stesso narratore a intraprenderle per rappresentare a se stesso il proprio fare». È la trama di una autobiografia letteraria che apre ulteriormente il laboratorio di Del Giudice e mostra i tratti di una tensione costante a riflettere sul significato da conferire al gesto letterario facendo letteratura: un continuo ripensamento scandito da dubbi e inquietudini, avviato da Lo stadio di Wimbledon, che non a caso consegnava il profilo di Bobi Bazlen cioè di colui il quale scrivendo la vita degli altri aveva decretato l'unica praticabilità nell'elaborare note a pie' di pagina; continuato con Atlante occidentale, Nel museo di Reims, Staccando l'ombra da terra, Mania, Orizzonte mobile, In questa luce; terminato all'incombere del buio nella sua mente, spenta in una estenuata cerimonia dell'addio avvenuto a 72 anni.

Del narrare restituisce il suo acume intellettuale e ne recupera la contemporaneità dei giudizi e l'attualità delle valutazioni.

Se il destino ha interrotto la sua attività, Rammairone si chiede comunque «quale punto di osservazione avrebbe scelto per misurare e osservare le nuove forme del reale». La risposta di Del Giudice è affidata all'unico testo parzialmente inedito del libro, datato i primi anni Duemila: «Il romanzo è per me la zona, zona di detriti, materia calda e brulicante. Zona delle emergenze, di quel che emerge ai limiti del già conosciuto, informe, incompiuto, appena nato». Per lui, allora, la narrazione, il racconto, le parole «sono reti per agganciare la realtà, per inventarla»: non una contraddizione d'intenti, quanto l'indicazione del racconto nei termini del «racconto di ciò che cambia, e non soltanto e non tanto nel mondo della realtà, perché su quello tu arrivi sempre tardi () Dunque non puoi che lavorare sull'eco di tutto questo e sull'impatto su di noi, l'impatto, il buco, i bozzi che la realtà produce su di noi e che produce in forma di modificazione».

Del Giudice - è l'insegnamento che arriva dal suo atlante della scrittura - spiega che «per ottenere una vera rappresentazione realistica devi fare un'operazione di pura fantasia». Imparare a confrontarti con altre forme di rappresentazione. Perché i mutamenti velocissimi della realtà e della sua percezione possono essere colti solo mostrando di «saper tenere la stessa complessità che sanno tenere una moderna proposizione scientifica, o un pensiero filosofico, o un film, o uno sceneggiato televisivo». Con l'adeguata leggerezza. 

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