Michele Prisco morto 20 anni fa, se soltanto il cinema si ricorda dello scrittore di Torre Annunziata

Il grido di allarme di Prisco alimentò la ripresa del romanzo organico, a tutto tondo

Michele Prisco
Michele Prisco
di Antonio Saccone
Sabato 18 Novembre 2023, 08:00 - Ultimo agg. 17:00
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Nemmeno il ventennale della morte, che cade domani, alza il velo di oblio, di disinteresse, calato sulla produzione di Michele Prisco. Inattuale? Lontano dalla sensibilità moderna?

Eppure la produzione dello scrittore nato a Torre Annunziata il 18 gennaio 1920, è ricca di fortunati racconti e romanzi, a cominciare dal libro d'esordio, La provincia addormentata, apparso nel 1949. A lungo collaboratore di «Il Mattino». Meno nota è la sua attività, quantunque ugualmente rilevante, di saggista. In un volumetto del 1983 (Il romanzo italiano contemporaneo) Prisco analizzava i pericoli legati alla liquidazione del genere-romanzo. Ma già nel gennaio del 1960 nel fascicolo inaugurale della rivista «Le ragioni narrative» Prisco, insieme ad altri narratori meridionali, come Rea, Incoronato, Pomilio, esprimeva, in linea con la stessa titolazione della rivista, l'esigenza di sostenere i fondamenti del narrare assediati dall'incipiente neoavanguardia, dalla dissoluzione della «necessità» romanzesca e dal conseguente annullamento del personaggio e della trama, sostituiti dal rilievo parossistico conferito all'oggetto. 

Nel suo articolo, intitolato Fuga dal romanzo (sottotitolo Appunti sul nouveau roman), erano denunziati i rischi insiti nella messa in mora del genere-romanzo.

Le tecniche narrative, teorizzate e praticate in quel giro d'anni da Prisco, erano perseguite come esemplari figurazioni del romanzo classico, di ascendenza ottocentesca, ben fatto, coerente, edificato sulla consecutività di trame efficacemente congegnate, proprio quelle utilizzate come testa di turco dell'aspra polemica esercitata dagli esponenti del roman du regard francese, Alain Robbe-Grillet, Michel Butor e Nathalie Serraute, dei cui testi è proposta una serrata e densa ricognizione. Prisco ridiscuteva anche la famosa battuta di Paul Valéry che «diceva di non poter accettare il romanzo perché gli ripugnava di scriverela marchesa uscì alle cinque». Ma quella battuta, che presa isolatamente sembra davvero l'estremo omaggio alla banalità, poteva, posta ad un certo punto della narrazione, avvolta in un certo clima, caricarsi di una significativa suggestione.

Era, evidentemente, quello di Prisco, un modo abbastanza scoperto di difendere strenuamente il diritto a raccontare e, in particolare, a legittimare le sue risorse, il suo percorso narrativo fondato sulla centralità della figura umana, che gli sperimentali innovatori degli anni Sessanta avevano tentato di scardinare: «Non ci sono solo le cose, come pretendono i voyeurs del nouveau roman: ci siamo anche noi». Nel nuovo romanzo sperimentale, «costruito tutto di testa», le preoccupazioni psicologiche, morali o ideologiche che al romanzo fornivano la sua prospettiva e la sua profondità furono abolite. Il testo narrativo nello stesso momento in cui si privava del significato abdicava alla sua «necessità», che era per Prisco, invece, «la sua fondamentale ragion d'essere».

Il virtuoso psicologista, il pittore di atmosfere che, attraverso il ritmo felpato, avvolgente e l'estenuante ridondanza aggettivale, auscultava il cuore della provincia napoletana, mettendone in bella copia le segrete aritmie, non poteva, incontrando la neoavanguardia, non individuarvi una poetica e una modalità compositiva, intenzionate a disintegrare la tradizione del romanzo, a privilegiare l'esclusiva visibilità delle «cose», accantonando il personaggio, cioè l'uomo e il suo mistero.

Il grido di allarme di Prisco alimentò la ripresa, da lui operata con convinzione, del romanzo organico, a tutto tondo. Dopo le prime prove, ancora legate a ristretti ambiti familiari, la sua ispirazione fu arricchita da una prospettiva storiografica (inaugurata dalla Dama di piazza del 1962, che si aggiudicò il Premio Napoli, e proseguita più avanti con Una spirale di nebbia, Premio Strega nel 1966). Non si trascuri, comunque, il fatto che, dando voce ad un'angosciata perplessità di fronte ad inediti meccanismi espressivi volti ad annullare la struttura del romanzo, Prisco non prevedeva che il contesto partenopeo avrebbe generato esperienze narrative apparentabili in qualche modo (con tutti i distinguo del caso, ovviamente) al clima sperimentale instaurato dalla neoavanguardia. Il riferimento è alla struttura labirintica, alla folta presenza di anacronie, alla frantumazione della linearità temporale che caratterizzano Ferito a morte di Raffaele La Capria, pubblicato un anno dopo la denuncia di Prisco, e all'Amara scienza (1965) di Luigi Compagnone, il cui tempo narrativo era affidato ad una galassia di contemporaneità, ad un tutto presente che è anche un tutto passato.

Prisco predicò e praticò costantemente la fiducia incondizionata nell'atto del raccontare, anche quando capovolse la fisionomia del suo scrivere. È il caso di una delle ultime opere, Il pellicano di pietra, del 1996, in cui della provincia vesuviana è offerta, con uno sguardo impietoso, l'altro volto, espressione di inaudite, feroci violenze.

Vent'anni dopo la sua morte del nouveau roman non è rimasta traccia o quasi, ma è difficile anche tornare a parlare di Michele Prisco: ci ha provato Ida Di Benedetto, produttrice ed interprete di «Gli altri» film di Daniele Salvo, tratto dal romanzo omonimo, nel cast anche Peppe Servillo, Gianfranco Gallo, Gioia Spaziani e Lorenzo Parrotto. 

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