Salvatore Palomba, i 90 anni dell'ultimo poeta napoletano

«Per campare ero un serio dipendente della Rizzoli: iniziai come venditore e andai via da dirigente. Ma continuavo a scrivere canzoni»

Salvatore Palomba
Salvatore Palomba
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Giovedì 14 Dicembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 15 Dicembre, 19:17
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L'ultimo poeta napoletano compie oggi novant'anni. Ha scritto circa duecento canzoni, quattro libri di liriche e nove di saggi, sulla canzone, la lingua, la storia della sua città. I capelli bianchi, anzi candidi, di Salvatore Palomba, il suo colloquiare pallido e assorto, il suo tono pensoso, la sua concretezza, il suo dialetto nobilissimo, la sua eleganza verace sono un'oasi nel logorio della vita postmoderna.

Tanti auguri, Salvatore. Ma quando hai iniziato a scrivere poesie?
«A scuola, avevo 7 anni, e me ne vergogno: ci avevano dato un tema sull'asse Roma-Berlino, studiavamo le agiografie del duce firmate da Margherita Sarfatti, io scrissi dei versi, chissà perchè, successe un pandemionio, se ne carette a scola».

E poi?
«Ho perso il quadernetto delle mie liriche infantili quando fummo sfollati. Scrivevo in italiano, anche se a casa si parlava il dialetto, adoravano Ferdinando Russo e Raffaele Viviani: mio padre, attore amatoriale, aveva anche recitato con la sorella del grande drammaturgo stabiese, Luisella. A 13 anni scrissi la mia prima canzone in napoletano, “Nun chiagne”, la musica c'era solo nella mia testa, però».

Era già importante per te la canzone?
«Nel dopoguerra ci facevamo il teatro, anzi il teatrino, in casa, non c'erano molte distrazioni, e ancor meno soldi. Avevamo, però, i canzonieri di Bideri, della Canzonetta e papà ci insegnava a cantare i classici napoletani. A 17 anni, era il 1950, andai a vedere la Piedigrotta Vian, quella di “Luna rossa”, l'anno successivo conobbi il suo autore, Antonio Vian e quello ancora dopo firmai con lui la mia prima vera canzone, “'O portalettere”: Carla Boni voleva un pezzo allegro, anche qui non ne vado fiero, ma la incise pure Eva Nova».

CantaNapoli ti risucchiò, ma volevi rifondare il settore.
«Giovane di belle speranze, non sopportavo gli stereotipi che, per colpa del Festival di Napoli, stavano ammazzando la nostra canzone: la giuria nazionale che votava premiava i pezzi più retrogradi, che parlavano di mare, mamme, mandolini...

Con Ettore Lombardi lanciammo il movimento di protesta della nouvelle vague: ci vennero dietro autori come Eduardo Alfieri e Umberto Boselli, cantanti come Mina e Fausto Cigliano, quest'ultimo forte degli arrangiamenti di Morricone. Organizzammo la nostra contromanifestazione al teatro Mediterraneo, per dare risalto ai testi, prima che venissero cantati, li facevamo leggere dai giovani Mariano Rigillo e Stefano Satta Flores. Stampa, editori, anche la Rai si era interessata al fenomeno, ma le proteste dei mammasantissima della canzone ufficiale fecero si che le riprese non andassero mai in onda».

E la nouvelle vague finì.
«Sì, rientrammo subito nei ranghi. Diventai un autore da Festival di Napoli».

Ma per campare...
«Per campare ero un serio dipendente della Rizzoli. Iniziai come venditore, dopo trent'anni e passa andai via da dirigente. Ma continuavo a scrivere canzoni».

E nel mondo della cultura come era visto il tuo secondo lavoro?
«Con sufficienza. Nel 1967 vinsi il Festival con “'O matusa”, scritta con Alfieri, Nino Taranto voleva una macchietta. Anche qui non è proprio il massimo della mia scrittura, ma avevo vinto e in un telegramma lo storico manager della casa editrice Gianni Ferrauto si congratulò con me perché, ricordo bene le parole, sapeva bene quanto io tenessi al mio hobby».

Un «hobby» che ti ha portato a scrivere un capolavoro come «Carmela», l'ultimo classico napoletano o il primo classico postmoderno che dir si voglia. Quando incontrasti Sergio Bruni, «'a voce e Napule»?
«Nel 1965 cantò per la prima volta dei mie versi, “A vita mia”: ci annusammo, ci piacemmo subito, ci demmo del tu. “Salvato', tu sì comme Picasso”, mi diceva, non tanto per elevarmi al rango di un simile genio, ma per dire che le mie canzoni erano fuori dai canoni».

Come «Carmela».
«Si, strana nella forma, scura nel contenuto. Nel 1975 avevo pubblicato il mio primo libro di poesie, Parole overe».

La tua poesia, come anche quella di «Chisto è nu filo d'erba e chillo è o mare» e «Nu cielo piccerillo» è concreta, verace, semplice, pudica, civile e feroce quando serve, a tratti soffusa di un panteismo francescano. La tua Napoli non è mai stata folkloristica, è un vico nero che non finisce mai, è «rosa, preta e stella».
«Sergio rimase incantato di fronte a quelle poesie, musicò subito “Carmela”, “Masaniello” e “Napule nun Napule nun t''o scurda”».

Che forse, insieme a «Carmela» è la poesia, e canzone, di cui vai più orgoglioso: «O vintotto e settembre d' o Quarantrè/ se tignettere e russe e giesummine/ for' e barcune e Materdei./ Uommene, femmene, viecchie,/ guagliune ca sapevane a storia malamente/ e guagliune ca nun sapevane niente/ sapettere o stesse chelle c' avevano a fà'».
«Le Quattro Giornate di Napoli, la pagina più alta della nostra storia, la città che si libera da sola dalla marmaglia nazifascista».

Così arrivò un disco storico come «Levate a maschera, Pulicinella».
«Finirlo fu difficile, non scrivevo più per la forma canzone, non volevo più farlo, mi venivano solo poesie».

Il successo di «Carmela non fu immediato.
«Per strada qualcuno ci urlava: “Comunisti”. Due anni dopo, però, i posteggiatori la facevamo risuonare in tutta Napoli. Si è imposta dal basso, da sola. È arrivata a Mina, ad essere tradotta in inglese, il titolo, quel nome di donna salvifica lo sentii urlare in una trattoria di Palazzo Donn'Anna: lei era bella, bruna, fiera. Poi divenne la proprietaria della Zi' Teresa».

La canzone che avresti voluto scrivere?
«“Napule è”. È nata nello stesso anno di “Carmela” ci sono tratti in comune. Aveva ragione Ignazio Buttitta: il poeta è un minatore. Pino ed io raccogliemmo delle cose che erano nell'aria, emozioni di disperazione e speranza».

Come sta cantaNapoli?
«Cambia pelle. La canzone classica è morta, certo, ma ha sempre saputo rinascere nel confronto con la modernità: “'Na sera e maggio” è un tango, “Luna rossa” una beguine, “Anema e core” uno slow. Però sapeva conservare il suo carattere anche nella contaminazione, oggi ho paura ceda alla marmellata pop».

Come sta il nostro dialetto?
«Benissimo, tutti vogliono scrivere canzoni in napoletano».

Come sta la poesia napoletana?
«In un poderoso studio sulla letteratura partenopea ci sono solo tre viventi: Raffaele Pisani, Enzo Moscato ed io: un po' pochini, direi». 

Tanti auguri, maestro Palomba. 

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