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Ex Ilva al bivio tra fallimento e acciaio di Stato

di Giusy Franzese
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 30 Novembre 2022, 11:20 - Ultimo agg. : 1 Dicembre, 08:09
4 Minuti di Lettura

Il primo segnale è giunto su Ita Airways: era noto che la soluzione Certares-Delta-Air France per il futuro della compagnia non era gradita al ministro Giancarlo Giorgetti, che in estate si era invece espresso a favore di Lufthansa.

Ascolta: Tagliare la bolletta si può. Anche grazie alle comunità energetiche

Ma nessuno avrebbe immaginato che dopo mesi di studi e valutazioni la proposta del fondo americano sarebbe stata affossata in sole due settimane (approfittando della cessazione dell’esclusiva) per fare posto alla compagnia tedesca. Alla fine può essere che l’idea di Giorgetti si riveli la più azzeccata; e tuttavia per il momento registriamo il fatto che la gara per la privatizzazione di Ita deve ripartire da capo, a fronte di un valore della compagnia dimezzato rispetto all’inizio dell’estate. Situazione non dissimile nel caso di Tim: mesi di elaborazione da parte della cordata guidata da Cdp per formulare un’offerta per l’acquisto della rete - con tanto di progetto di scorporo e cessione delle attività commerciali per ridurre il superdebito di 25 miliardi della società - e d’improvviso si ferma tutto perché la soluzione non è gradita al governo. Anche qui milioni di euro finiti vanamente nelle tasche degli innumerevoli advisor, con Tim paralizzata in attesa che venga elaborato un nuovo piano chissà quando. Sia chiaro, un governo ha tutto il diritto di mettere in discussione l’operato di chi l’ha preceduto avendo programmi diversi, ma qui siamo all’azzeramento di quanto è stato fatto anche se ciò costa alle casse pubbliche e a quelle private. L’auspicio è che le nuove proposte siano effettivamente migliori di quelle che si andavano costruendo.

E veniamo al caso ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia. Che la siderurgia sia un settore strategico per l’Italia è noto. Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, come potrebbe non essere strategica la produzione di acciaio? L’abbiamo visto con il gas - e con i chip - cosa può accadere ad essere troppo dipendenti dall’estero. Nell’acciaio, a dominare il mercato mondiale sono Cina e India, l’Italia se la batte ancora bene. Per tonnellate prodotte è al secondo posto in Europa, dopo la Germania, e all’undicesimo posto nel mondo: un primato che non dobbiamo perdere. È una questione di geopolitica. Ma anche di sostegno all’intero settore manifatturiero. A questo proposito sono sufficienti due numeri: l’industria delle costruzioni rappresenta il 35% del fatturato delle imprese siderurgiche italiane, l’automotive il 18%, poi ci sono le industrie di elettrodomestici. Il parco clienti di Acciaierie d’Italia rientra esattamente in questa fotografia. Inoltre Acciaierie è essenziale anche per le altre aziende siderurgiche, essendo la prima per rifornimenti di materie prime agli impianti del Nord a forno elettrico. Lo stabilimento di Taranto - il più grande d’Europa - a sua volta, rappresenta per fatturato e produzione più dell’85% del bilancio del gruppo. Insomma se si ferma Taranto rischia di fermarsi una parte consistente dell’industria italiana. Per questo sarebbe ora che i nostri governanti, oltre a dichiarare la strategicità della siderurgia italiana, lo dimostrino. Con decisioni, interventi e azioni adeguate. Esattamente tutto ciò che non è accaduto nella lunga e tormentata storia dell’Ilva, costellata di scelte poco lungimiranti, decisioni condizionate dall’ideologia, errori di gestione. Un dossier bollente che rischia di incenerire le scrivanie sulle quali viene depositato. Se ne sta accorgendo anche il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, chiamato a prendere una decisione meno semplice di quello che sembra: come impiegare la dote di un miliardo che il governo Draghi ha lasciato per Acciaierie d’Italia. Ricapitalizzare portando Invitalia, attuale socio pubblico con il 38% (e il 50% dei voti nel cda), a detenere una quota di maggioranza, con effetti immediati sulla governance? Il socio privato ArcelorMittal la pensa diversamente: quei soldi li vuole per dare una boccata d’ossigeno alle casse dissanguate dal caro energia (la bolletta annuale è quasi decuplicata toccando 1,4 miliardi). Il ceo Lucia Morselli rivendica un bilancio 2021 in utile per 310 milioni (contro 265 milioni di perdita nel 2020) e un buon andamento anche nel 2022. E a chi rimprovera al gruppo di non investire, ricorda i grandi passi avanti nelle prescrizioni ambientali. Casse vuote (tanto da costringere il gruppo a ricorrere alla Snam come fornitore di ultima istanza), produzione dimezzata, ammortizzatori sociali a go-go per i dipendenti, sospensione dei contratti con l’indotto, sono però argomenti che autorizzano a chiedere «un cambio di passo» a chi non ha mai creduto che il colosso franco-indiano puntasse davvero sul rilancio del gruppo italiano. Anche Urso ha parlato di necessario «cambio di governance» e di garanzie sul futuro del gruppo e sul suo sviluppo: «Lo Stato deve sapere dove va a finire il miliardo». Domani 2 dicembre ci sarà l’assemblea dei soci e in molti si attendono che Invitalia scopra le carte. Nel frattempo, tra l’ipotesi di un socio pubblico in maggioranza e quello di un addio definitivo ai Mittal, c’è anche chi suggerisce un «fallimento pilotato con il ristoro dei fornitori e la creazione di una nuova società» anche con altri soci privati, purché con la volontà e la capacità di un effettivo rilancio. E Taranto resta nel limbo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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