Social media: «Ecco dove nasce la cultura della cancellazione»

«Il problema della cancel culture parte proprio dalla sua definizione. Non ne esiste una spiegazione univoca e già questa può nasconderne un giudizio»

Social media: «Ecco dove nasce la cultura della cancellazione»
di Emanuela Di Pinto
Martedì 14 Marzo 2023, 18:36
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Si può dire che la cancel culture esistesse già nell'antica Roma quando molti imperatori ricorrevano alla “damnatio memoriae” per cancellare le gesta di uomini politici o, addirittura, loro predecessori. La pena consisteva nell'eliminare qualsiasi traccia della vita di una persona come se non fosse mai esistita lasciando un vuoto che, solo con gli anni, con gli studi e le ricerche è potuto essere riempito. Pensandoci, in fondo, la differenza tra il modo in cui gli antichi romani rimuovevano dalla propria società persone i cui comportamenti venivano considerati sconsiderevoli e la recente abitudine di “cancellare” figure di cui le opinioni si definiscono discutibili non è tanta. Il fenomeno, che grazie ai social network è diventato sempre più globale, tocca ogni settore partendo dalla politica fino ad arrivare alla cultura e allo spettacolo come nel caso di J.K Rowling dopo aver reso note le sue idee riguardo l'identità di genere o Kevin Spacey di fatto “cancellato” da Hollywood dopo le accuse di molestie di diversi anni fa.  Al centro dell'occhio del ciclone, molto spesso, non si trovano solo persone ma anche aziende coinvolte in situazioni controverse o che decidono di non rendere chiare le proprie posizioni su temi definiti rilevanti dall'opinione pubblica.

I social network, ovviamente, hanno solo amplificato questa tendenza a rimuovere un determinato personaggio o azienda dal dibattito pubblico. In un mondo in cui le piattaforme sono diventate sempre di più un mezzo dove affermare il proprio status quo e posizionamento sociale la possibilità delle persone di “levare un follow” o cliccare semplicemente un “non seguire più” diventa un importantissimo strumento di potere capace di decidere il destino delle persone. Abbiamo parlato con il giornalista Francesco Oggiano per capire meglio come questo fenomeno sia diventato così pervasivo ed invadente nella società moderna. «Il problema della cancel culture parte proprio dalla sua definizione - spiega - Non ne esiste una definizione univoca e già questa può nasconderne un giudizio. Una di quelle che ho apprezzato di più è del Merriam-Webster che la definisce come “la rimozione del supporto a pubbliche figure in risposta a comportamenti o opinioni discutibili”».

Se nella storia un primo elemento che può avvicinarsi al concetto di cancel culture moderna è la Damnatio memoriae in tempi più  recenti l'origine del termine sembra essere assimilabile alla cultura di massa e, in particolare, al mondo del cinema. «Secondo Vox [ndr: Media] il primo uso del termine è riconducibile al 1991 ed è quasi intriso di machismo» spiega Francesco «Nel film New Jack City c'è un gangster interpretato da Wesley Snipes che viene lasciato dalla fidanzata e afferma “cancel that b****”. Nel 2010 il termine viene ripreso dal rapper Lil Wayne che lo mette in una sua canzone e il verbo to cancel inizia ad essere utilizzato come sinonimo di eliminare qualcuno dalla propria vita» chiarisce. «Inizia a diffondersi su Twitter e poi sempre di più negli ultimi anni come un uso di verbo transitivo per “cancellare” qualcuno».

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I due episodi più recenti che hanno rimesso al centro il tema della cancel culture riguardano la scelta delle case editrici proprietarie dei diritti dei romanzi di Roal Dahl e di Ian Fleming di ristampare i romanzi rimuovendo parole definite offensive o che possano in qualche modo urtare la sensibilità dei lettori. La questione, come era prevedibile, ha riaperto un importantissimo dibattito non solo riguardo la cancel culture ma anche quello del rispetto dell'autorialità del prodotto. Ad essere messo in dubbio, infatti, è quanto le case editrici abbiano il “diritto” di rimaneggiare lavori del quale non hanno alcuna proprietà intellettuale e creativa. «L'operazione fatta dalla casa editrice intacca alcuni diritti e alcuni principi. Se io riscrivo delle tue parole ti sto facendo dire qualcosa che non volevi dire, visto che non hai la possibilità di accettare o declinare» spiega Francesco. «Equivale a violare un diritto e un'autonomia e quindi al di là del valore letterario [...] è una questione di rispetto della volontà degli autori e di quello che volevano dire. Per questo motivo la casa editrice ha già fatto una parziale retromarcia annunciando che accanto alle opere modificate pubblicheranno anche quelle originali».

Internet e i social network sono diventati il luogo prediletto nel quale la cancel culture continua a diffondersi a macchia d'olio. A volte, addirittura, sembra viaggiare quasi di pari passo con le enormi polemiche che riguardano il tema, costantemente sulla bocca di tutti, del politicamente corretto. «Il politically correct può essere, secondo me, anche una cosa buona. Significa utilizzare delle espressioni che tendono a non offendere qualcuno. C'è stata una evoluzione del linguaggio che è anche positiva» chiarisce Francesco definendo nettamente quella che è la distinzione tra questa tendenza e quella della cancel culture. «I social media l'hanno aiutata creando un'atmosfera soffocante. Spesso si dice che questo fenomeno non esiste perchè persone come J.K Rowling o altri possono esprimersi su tutto quello che vogliono. Qui si parla del principio. Le persone non devono essere cancellate per delle parole e degli atteggiamenti».«Si finisce ad aver timore di esprimere le proprie opinioni per paura di finire al centro di una shitstorm o azioni di cancel culture» conclude. 

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