Napoli, va in commissariato e scopre di essere condannato a 30 anni

Era un fantasma per la giustizia: e così finisce in cella

Un tribunale
Un tribunale
di Leandro Del Gaudio
Domenica 30 Luglio 2023, 21:21 - Ultimo agg. 22:38
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Va a fare le pratiche per il permesso di soggiorno in commissariato e scopre di essere stato condannato a trent'anni di reclusione. Si ritrova in cella con una condanna definitiva destinata a scadere negli anni cinquanta di questo secolo, in quanto ritenuto capo di una banda di narcos, condannato per la bellezza di 450 capi di imputazione.

Strana storia, quella di Issakà Hashimu, cittadino ghanese del 1975, finito al centro di una vicenda kafkiana, che conviene raccontare dal finale. Un lieto fine, almeno nella prospettiva del ghanese: in questi giorni, infatti, la corte di appello di Napoli (presidente Agnese Di Iorio, a latere Giannone De Falco e Vertuccio), hanno disposto la rescissione del giudicato, accogliendo il lavoro difensivo dei penalisti Giacomo Pace, Alessia Spanò e Salvatore Somma. Ma proviamo a ricostruire una sorta di esperienza kafkiana.

Facciamo un passo indietro.

Siamo nel 2002, quando nasce un'inchiesta per una gang di narcotrafficanti, che - nell'ottica degli inquirenti - farebbe leva sul ruolo di Issakà Hashimu. Nel 2004, il cittadino ghanese lascia l'Italia, dopo essersi separato dalla moglie, dalla quale ha avuto un figlio. Torna in Africa, ma - dopo qualche anno dal suo rientro - le forze dell'ordine vanno a notificare a casa della convivente una misura cautelare. Non lo trovano e ovviamente non dicono alla moglie i motivi del blitz. Per anni, il cittadino ghanese vive in Africa, inconsapevole del fatto di essere un soggetto ricercato dalla magistratura italiana. Finisce sotto processo, ovviamente in assenza. Viene condannato a 30 anni, di fronte a 451 capi di imputazione che lo inchiodano come responsabile della potente macchina del narcotraffico. 

La svolta avviene pochi mesi fa, quando Issakà Hashimu decide di fare rientro in Italia, per abbracciare il figlio, con il quale ha intrattenuto un rapporto soprattutto per corrispondenza e via chat. Anche alla dogana, il suo nome non desta alcun sospetto. Dopo qualche giorno tra Napoli e Caserta, si reca in commissariato, per adempiere agli obblighi di chi arriva in Italia da un paese extracomunitario, per dare inizio alle pratiche del permesso di soggiorno. E' a questo punto che viene arrestato. Si vede notificare una sentenza di condanna a trenta anni di reclusione. Inizia un lavoro difensivo, che passa per il recupero degli atti e la ricostruzione di un processo a un fantasma, che ovviamente ignorava di essere sotto inchiesta e destinatario di un'accusa tanto grave. Scrivono i giudici, aderendo alle conclusioni difensive:

«E' ragionevole ritenere che il processo si sia svolto completamente a sua insaputa»; e ancora: «Sul piano logico, è ragionevole ritenere che, se lo Hashimu avesse avuto conoscenza della sentenza di condanna alla pena di 30 anni riportata in Italia, si sarebbe ben guardato dal rientrare in Italia e comunque dal presentarsi in un ufficio di Questura». Un intervento sulla procedura, che lascia aperto un interrogativo: quanto fondate erano, nel merito, le accuse di essere un potente narcos attivo tra Napoli e Africa? 

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