Calderoli, offese alla Kyenge se il diritto perde la responsabilità

di Aldo Masullo
Sabato 7 Febbraio 2015, 22:59 - Ultimo agg. 23:31
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Il senatore Roberto Calderoli, in pubblico si riferì a Cécile Kyenge, italo-americana medico e all’epoca ministro della nostra Repubblica, esclamando: «Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Qualche giorno fa al Senato la giunta delle immunità ha proposto all’Assemblea di non autorizzare il processo richiesto dalla querela della signora offesa. Secondo l’organo parlamentare in quelle parole non si configura la «diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale».



In sostanza il senatore Calderoli era nel suo pieno diritto di dire quel che disse! In un mondo gonfio di fanatismi distruttivi, spaccato da crescenti ingiustizie sociali, teatro di crudelissime stragi d’innocenti, qua e là percorso da venti di guerra, può sembrare poco più di una intellettualistica frivolezza soffermarsi su una questione come questa, da gallinaio di un cortile dove gli striduli versi dei bipedi pennuti fanno molto schiamazzo per nulla.



Invece il piccolo episodio comporta un’inquietante questione di fondo, che tocca il punto più avanzato di questa nostra estrema modernità.



Il tema ha qualche analogia con quello discusso in Francia sul caso del comico Dieudonné, accusato di apologia del terrorismo. A tal proposito, si legge sul giornale «Le Monde», il filosofo Ruwen Ogien propone di distinguere tra l’«offesa», giuridicamente irrilevante perché non provoca danni tangibili, e il «pregiudizio», punibile dal momento che può scatenare una violenza diffusa. Alla luce di tale distinzione, la frase di Calderoli non enuncia un «pregiudizio, ma è un’«offesa». Calderoli voleva sfregiare a parole una persona che gli è antipatica, e le parole, si sa, non lasciano segni deturpanti né, indirizzate contro persone comuni, suscitano pericolose reazioni diffuse.



Ma, ammessa in ipotesi come pertinente la distinzione di Ogien, andrebbe subito aggiunto che le parole di Calderoli non sono solo un’«offesa», ma un’offesa per mezzo del «pregiudizio». Se Calderoli non avesse messo in mezzo l’orango, se per colpire non avesse voluto approfittare della volgare abitudine di assimilare spregiativamente la persona di pelle nera ad uno scimmione, se dunque non avesse voluto far leva su di un diffuso «pregiudizio», le sue parole sarebbero state soltanto un’offesa, nient’altro che una banalità di pessimo gusto.



La questione peraltro si riapre a un livello più profondo. Nell’attuale dinamica della coscienza comune europea l’impaziente corsa verso un’integrale attuazione dei principi liberali, finora osteggiati dalla cultura maggioritaria e dalle istituzioni che ne sono il riflesso, prorompe nel riconoscimento di sempre più numerosi e intransigenti diritti dell’uomo nella sua irriducibilità d’individuo.



Molti vincoli e rispetti vengono così scavalcati, anzi in ciò viene comunemente identificato il progresso civile. Si sgretolano molti aspetti repressivi della nostra cultura e della nostra legislazione. Ci sentiamo tutti meno vincolati e anzi desiderosi di svincolarci da residui intralci. Un tal sentire tende a estremizzarsi. Sempre più sembra che nell’individuo, mentre s’irrobustisce la pretesa del diritto, s’indebolisca la coscienza del dovere. Sempre più ci si atteggia come se gli altri non esistessero, o di loro nulla importasse.



Ognuno è sempre più smanioso di ricevere, perché «gli tocca», e sempre meno disposto a dare, perché «non spetta a lui»! Di questo passo, anche l’uso della parola sembra sempre più un diritto illimitato. Non solo, com’è razionalmente giusto, si vuol essere liberi di comunicare le proprie idee difendendole apertamente e apertamente argomentando contro le altrui, nella qual cosa consiste l’intrinseca politicità del pensiero.



Ma si pretende addirittura di non avere limiti nell’abuso inutilmente offensivo del linguaggio. Il linguaggio da sempre serve a descrivere agli altri il mondo che ciascuno a modo suo vede, compresa l’oscenità e la violenza di tanta parte del mondo umano. Ma oggi, soprattutto tra politici, scrittori e persone variamente «per bene», sempre più di moda sono l’oscenità e la violenza del linguaggio stesso. La gratuità dell’una e dell’altra segnala l’ansia imitativa e gregaria propria dell’imbecillità morale. In questa temperie culturale l’anno scorso il legislatore realisticamente ha abrogato il reato di ingiuria.



Lo stesso reato di diffamazione, dell’ingiuria pronunciata dinanzi a molti in assenza dell’ingiuriato, viene conservato, però sempre meno disturba la coscienza comune. Parlando in pubblico, dire male d’altri che non sono presenti è pratica sempre più diffusa e tranquillamente tollerata. Accade come se il sacrosanto diritto di parlare liberamente si fosse dilatato oltre ogni limite, tanto da non tener conto del diritto degli altri al rispetto della loro dignità.



Qui credo che si colga con crescente evidenza la contraddizione di fondo, in cui la società moderna si trova impigliata. Il principio moderno è la libertà dell’individuo, cioè del vivente corpo umano nella sua potenza di pensiero e di manipolazione del mondo. Nel suo sviluppo è inevitabile che il principio miri alla radicale realizzazione. Così il suo soggetto, l’individuo, viene sempre più valorizzato a prescindere dalla sua condizione sociale (famiglia, classe, religione, cultura, mestiere, etc.).



Però per tale via, presa la libertà alla nuda radice e risolta nell’estrema arbitrarietà dell’individuo come tale, inevitabilmente si va a sbattere contro l’inaggirabile muro di un dilemma drammatico: o ci si rassegna a contraddirsi, e l’appena dichiarata libertà estrema di ogni individuo subito la si limita di fronte alla libertà di ogni altro, e le libertà di tutti si fanno pareggiare nel diritto, oppure si rinnega il principio del diritto lasciando che la libertà si riduca al fatto naturale della lotta di ognuno contro tutti.



La libertà o è di tutti o di nessuno.
Essa vive solo se non si consegna ad alcuna forza estranea ma civilmente ragionando sa darsi da sé il suo limite e assumere la forma del diritto. Senza questa capacità, cioè senza l’«autonomia» additata dall’illuminista Kant, vero padre del pensiero giuridico moderno, la modernità non potrà compiersi ma correrà irresistibilmente verso la rovina.