Ogni volta che un disastro accade in mezzo del mondo contemporaneo il suo impatto è immenso, e forse non è paragonabile a quello che aveva nei tempi passati: perché noi che il fuoco lo abbiamo incanalato nelle fiammelle del gas per cucinare in fretta cibi già pronti e nei riscaldamenti per stare in maniche di camicia a gennaio, noi che siamo nel culmine della contemporaneità più o meno gaudente a seconda del posto che ci è stato inflitto dalla società, noi abbiamo dimenticato la misura delle cose naturali. Qui non si parla dell’orrore di aver fabbricato e restaurato male un palazzo popolare, né dei piromani assassini che bruciano boschi e uomini per il bene degli speculatori, di questo si spera si occupi la giustizia: qui si parla del rapporto che abbiamo, ormai da decenni, con la cosiddetta natura. Dal fuoco è nata la civiltà umana, il fuoco era per i sapienti greci il dono fatto agli uomini da un semidio generoso che lo strappò agli dei egoisti, il fuoco era il segnale di salvezza per le navi e la salvezza dal freddo e dal gelo: e il fuoco è anche la devastazione che corre per foreste e città dall’inizio della civiltà. Ma gli antichi lo avevano divinizzato, vale a dire che gli avevano dato la funzione duplice di essere qualcosa di positivo e insieme di negativo, un modo con il quale essi riconoscevano che l’elemento naturale doveva essere rispettato nel momento in cui lo si adoperava: un’idea che non riguardava solo il fuoco, ma anche l’acqua, e la terra, e l’aria, per loro gli elementi costitutivi del mondo.
E noi? Noi siamo i figli del fuoco artificiale e volontariamente sterminatore di Auschwitz come di Hiroshima e Nagasaki: e come eredi sciocchi abbiamo voluto dimenticare che il potere, del fuoco o dell’acqua o della terra, ha sempre una doppia faccia. Per noi si tratta di servi che dominiamo, pensiamo che sia giusto avvelenare la terra e l’acqua perché non capiamo che ne siamo dipendenti, e pensiamo da fossimo bimbetti analfabeti che la tecnologia può risolvere tutto per miracolo: e devastiamo il devastabile nell’illusione di poter rigenerare ciò che non si rigenera. Forse ciò accade perché abbiamo una mentalità scientifica? Al contrario, ciò accade perché siamo ignorantissimi di scienza, e abbiamo una fede superstiziosa e dogmatica nella tecnocrazia: al totem abbiamo sostituito l’atomica, e adoriamo prosternati i nuovi mostriciattoli. Al di là delle sciagure «programmate» da speculatori e incompetenti, e di ciò che realmente non riusciamo a prevedere e che accade per «cause naturali», il nostro rapporto con le potenze della natura è malato, povero, accecato: e la nostra mancanza di paura nei confronti dell’avvelenamento dell’ecosistema non è coraggio, ma incoscienza fondata sull’ignoranza fideistica, un’ignoranza grazie alla quale i governanti possono trasformarsi, con il plauso o l’indifferenza dei governati, in terroristi della natura. Le immagini spaventose di incendi o di inondazioni da cui possiamo essere travolti come formiche non dovrebbero essere solo fonte di terrore, ma anche un terribile invito all’attenzione: e alla riflessione.
La logica che regola il mondo fisico è implacabile: se non diminuiscono le emissioni di gas nell’atmosfera aumenta la temperatura; se aumenta la temperatura aumentano i deserti e c’è meno cibo; se c’è meno cibo si muore.
L’equilibrio ecosistemico non sta solo nel mondo, ma anche dentro la testa di chi vive nel mondo e ne dipende. La fiamma che cuoce il cibo e riscalda è anche quella che distrugge l’uomo e le cose, ma non è essa la nemica dell’umano: i nemici dell’umanità siamo noi stessi quando non pensiamo fino in fondo il nostro rapporto complesso con la natura e la tecnica. La fiamma che divampa feroce o si modella come vogliamo dovrebbe ricordarci che l’ecologia della mente è sempre necessaria, e anzi, che quando meno si capisce che è necessaria tanto più vuol dire che essa è indispensabile.