Nei ristoranti, si parla più di ordinanze che di menù. Nei bar, si usa più il metro («Questa distanza basta? Non può essere un po' meno? Ma 100 centimetri sono davvero un metro?») che lo shaker per gli aperitivi. Roma riparte (un po'). Ma più che la gioia della liberazione, c'è l'ansia della ricostruzione. Ce la faremo? Ma per forza, non c'è alternativa. E poi Roma, nella sua storia, le battaglie le ha sempre vinte.
In giro nel cuore della città, a via Cola di Rienzo ma anche a via del Corso, si vedono scene da neorealismo cinematografico (purtroppo non c'è più Roberto Rossellini, e tocca farsene una ragione) e da Roma post-bellica. In cui i negozianti che riaprono, non riaprono tutti e altri scioperano contro il governo che non fa arrivare soldi, puliscono le vetrine come atto di fiducia, lucidano le saracinesche prima di alzarle. Dicendo «speriamo bene» e non più, come prima nel momento più buio in cui dominavano i toni altisonanti, «andrà tutto bene». Ed è straniante aggirarsi nel centro storico senza turisti, in cui dai fori imperiali ai musei, dai grandi magazzini ai negozi storici, ci si sente ripetere: «Senza turismo moriamo».
LEGGI ANCHE Fase 2 e riaperture, gli italiani assaltano Ikea
A via della Conciliazione, mentre passano di prima mattina cinque suorine vestite di bianco e munite di mascherina dirette a San Pietro riaperto ieri, è stato appeso un manifesto in cui si legge: «Non possiamo aspettare fino a Pasqua 2021. O i turisti tornano prima o noi non ci saremo più». E se non ci saranno più i bancarellari che vendono le immagini di Wojtyla vestito da centurione o di Totti addobbato da Padre Pio, ci si può stare. Se invece viene meno la filiera del turismo di qualità, Roma rischia di perdere il suo status mondiale oltre che un bel pezzo d'economia. L'ansia della ricostruzione subito non può che diventare anche l'ansia di una ricostruzione di qualità. Quella capace di coniugare, nel nuovo inizio, la bellezza impressionante e schiacciante della Roma svuotata e silenziosa ammirata nel lockdown con l'orgoglio cittadino e patriottico di fare di più e di meglio. Di non svendere più un patrimonio eccezionale al mainstream di un turismo andante e al piccolo cabotaggio di interessi che non fanno sistema e che non danno alla Capitale il rango che le spetta.
La sequela di negozi chiusi in centro ma anche in periferia, e che non sanno se riaprire, è uno spettacolo crepuscolare più che da ripartenza.
E segnala che la paura del contagio è stata abbastanza superata dall'angoscia di tipo economico. Ma già in serata i ristoranti, qualcuno almeno, cominciano a riempirsi (per non dire dei cocktail bar di Trastevere o di Ponte Milvio di nuovo affollati) e questa è la riprova che c'è voglia di riprovare la normalità, anche se non sarà come quella di prima. Nei caffè di Prati ci si siede e capita di sentirsi rivolgere questa domanda dalla cameriera imbarazzata per la sua irruzione nella sfera intima: «Voi siete congiunti, affetti stabili o solo amici? Chiedo scusa, lo domando solo per stabilire a che distanza dovete sedervi». In altri tempi, i clienti avrebbero chiamato indignatissimi il garante della Privacy o gridato in slang: «Signorina, lei ce sta a reprime'!». E invece, adesso le nuove regole hanno cambiato tutto. Tranne il fatto che mentre Roma prova a ripartire i vecchi vizi non sono spariti. Quelli della sporcizia e dell'incuria. Perché, per esempio, per il D-Day della Liberazione, non sono stati ripuliti di erbacce i giardini di Castel Sant'Angelo? Perché la base del Ponte della Musica ospita ancora i rimasugli dei bivacchi dei nomadi o dei maleducati? Perché è scoppiato, all'ora della resurrezione dell'aperitivo, con tanta gente a guardare il falò della balaustra, un incendio nelle sterpaglie sotto Ponte Milvio e i pompieri non sono arrivati all'istante anche se li hanno chiamati subito?
La Roma che rinasce, se ne avrà la forza, dovrà essere un'altra Roma.