Giorgio Napolitano, intervista ad Antonio Bassolino: «Il battesimo in piazza con un gigante al mio fianco»

Il ricordo dell'ex sindaco di Napoli: «Il suo errore con Monti nel 2011»

Antonio Bassolino e Giorgio Napolitano
Antonio Bassolino e Giorgio Napolitano
di Generoso Picone
Venerdì 22 Settembre 2023, 22:59 - Ultimo agg. 24 Settembre, 08:55
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«Un protagonista di primissimo piano per sessant’anni della politica italiana, nella Prima e nella Seconda Repubblica». Il giudizio che Antonio Bassolino consegna di Giorgio Napolitano è preciso e netto. Poi l’ex sindaco di Napoli e presidente della giunta regionale della Campania fa spazio ai ricordi personali, «ai tanti che riguardano la politica, il Pci, le forze politiche nate dopo il Pci dal Pds, ai Ds e al Pd, a Napoli e all’Italia».

E il primo che risalta dall’album della memoria ha a che fare con un’immagine a cui l’antico militante comunista conferisce un valore decisamente particolare. «Accanto a Napolitano tenni il mio primo comizio di piazza. Era l’agosto del 1964, c’erano appena stati i bombardamenti americani nel Golfo del Tonchino durante la guerra nel Vietnam, e sul palco ad Afragola c’eravamo io, segretario di una sezione frequentata da operai e braccianti e lui, il segretario della Federazione napoletana del Pci. Fu il mio battesimo in piazza». 

Bassolino, da allora con Giorgio Napolitano si è intrecciato un rapporto intenso, alimentato da una dialettica politica che nel partito vi ha visti spesso su posizioni differenti.
«Napolitano era già un dirigente affermato e negli anni successivi, alla morte di Luigi Longo, la successione alla segreteria nazionale del Pci si giocò tra lui ed Enrico Berlinguer, che prevalse. Era fortemente legato a Giorgio Amendola, mentre i miei punti di riferimento erano Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer. Dopo la svolta del 1980 e il superamento della politica di solidarietà nazionale con la scelta dell’alternativa democratica le divergenze di opinione, di analisi e di strategia si acuirono.

Però non hanno mai messo a rischio la collaborazione e la stima reciproca in un partito che discuteva e perciò era vivo e forte. Giorgio Napolitano appariva a tutti come l’espressione alta della generazione dei Raffaele La Capria, dei Francesco Rosi, degli Antonio Ghirelli, dei Peppino Patroni Griffi. Personalità che avrebbero avuto in Italia posizioni di primissimo piano nella letteratura, nel cinema, nel giornalismo, nell’arte e, con lui, nella politica. Per Giorgio Napolitano ho sempre nutrito una giusta considerazione e nel 1996 ebbi modo di manifestarla». 

In che modo?
«Le elezioni politiche del 1996, che io affrontai da sindaco di Napoli al vertice della popolarità, premiarono l’Ulivo di Romano Prodi e a Napoli conquistammo tutti i collegi. Paradossalmente, il meccanismo del voto finì per penalizzare il capolista al proporzionale che era Giorgio Napolitano, il quale non vide scattare il seggio. Era inaccettabile. Allora io dissi a Prodi, pubblicamente in un discorso a piazza Matteotti e poi privatamente, che un uomo come Napolitano assolutamente non poteva restare fuori e che occorreva trovare una soluzione adeguata. Romano Prodi convenne e lo nominò ministro dell’Interno».

Dal 3 giugno 1992 al 14 aprile 1994 Giorgio Napolitano era stato presidente della Camera. Ministro dell’Interno dal 18 maggio 1996 definì il suo profilo compiuto di uomo delle Istituzioni.
«La tutela e il rispetto delle istituzioni democratiche fu la sua stella polare. E in questo si ritrova il meglio della cultura politica del Pci, la cultura dalla quale Napolitano proveniva e che faceva parte del Dna di altri grandi comunisti come Umberto Terracini, Pietro Ingrao, Nilde Iotti che, come Napolitano, hanno avuto esperienze e ruoli istituzionali. Le istituzioni prima di tutto, rispetto non soltanto al proprio partito, ma pure alle maggioranze che li hanno eletti. E l’essere sempre stato un uomo delle istituzioni lo favorì nel 2006 per l’elezione a presidente della Repubblica. Ma c’è un episodio, ancora del 1996, che potrebbe meglio spiegare questa sua filosofia». 

Quale?
«Alla convention elettorale dell’Ulivo a Milano, quando fu lanciata la candidatura di Romano Prodi, nel mio intervento pronunciai con grande energia la parola Patria che non doveva essere lasciata nelle mani della destra. Una scelta inusuale, allora, in un incontro della sinistra. Io lo feci ricollegandomi alla migliore cultura napoletana e meridionale. Tanto che Napolitano, in quell’occasione, si disse molto contento dell’uso di una parola che avevo sdoganato e si complimentò con me. Ne fui felice». 

Napolitano il 15 maggio 1996 divenne il primo presidente della Repubblica proveniente dal Pci e il 20 aprile 2013 il primo capo dello Stato a essere rieletto.
«Il giusto riconoscimento a un uomo che ha sempre creduto nei valori dell’unità nazionale e che ha saputo svolgere il ruolo di presidente cercando di rappresentare chi lo aveva eletto, e lui fu eletto soltanto da una maggioranza, e chi non l’aveva eletto. Nel 2006 il candidato al Quirinale più forte era Massimo D’Alema, che era stato segretario del partito e premier. Ma pur essendo visto, ingiustamente, come il protagonista del cosiddetto inciucio con il centrodestra, fu giudicato troppo uomo di partito. Più di Napolitano che pure aveva una lunghissima storia nel Pci. La sua elezione ebbe comunque una sua coerenza». 

Quale?
«Napolitano aveva una considerazione maggiore come uomo delle istituzioni. Da napoletano e da meridionale, per la sua formazione giovanile, aveva coltivato una prospettiva nazionale ed europea, lontano da una visione di Paese chiuso in se stesso, nel proprio provincialismo. Ha proiettato questa sua idea nel ruolo di garante dell’Unità nazionale e le celebrazioni per i 150 anni, cadute proprio nel pieno del suo mandato, ne sono state la manifestazione evidente come una grande occasione per riflettere su un Paese che ha ancora un forte divario tra Nord e Sud e dove la questione meridionale è una questione europea. In questo ha espresso bene i valori della grande cultura nazionale, ma anche di quella napoletana, di maestri come Benedetto Croce e Giorgio Amendola. È stato un vero presidente italiano e per Napoli ha avuto sempre grandissima attenzione, vicinanza e partecipazione, come i suoi due predecessori, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi». 

C’è stato un suo gesto che non ha, almeno pienamente, condiviso durante il suo mandato?
«Sì. La gestione della crisi dell’autunno del 2011. Io ero convinto che bisognasse andare al voto anticipato, dare la parola ai cittadini come del resto stava avvenendo in Spagna: José Zapatero scelse questa strada consapevole che le elezioni anticipate, come poi avvenne, avrebbero potuto favorire i popolari. Napolitano, invece, diede l’incarico a Monti per un governo tecnico».

Un errore?
«Certo. Io penso che il centrosinistra avrebbe vinto, ma ci furono troppe titubanze e frenate».

Perché?
«Il Pd era diviso. Pierluigi Bersani non voleva apparire come chi metteva gli interessi del partito e i suoi personali davanti a quelli del Paese. E determinante risultò il parere di Napolitano, contrario alle elezioni anticipate e favorevole alle larghe intese». 

Perché? 
«Proprio dalla storica cultura del Pci, in particolare di quella parte del Pci che aveva in Amendola il suo massimo esponente, derivava una visione politica che ha sempre vissuto le elezioni anticipate come un trauma da cui tenersi lontani, preoccupati della fragilità della democrazia e dei pericoli per la sua stabilità».

Ci fu chi addirittura gridò al colpo di Stato.
«Assurdità».

Quando Napolitano venne rieletto al Quirinale scrisse un messaggio particolarmente severo indirizzato alle forze politiche incapaci di riformarsi...
«Sarebbe stato meglio per il Paese che il Parlamento non fosse stato costretto a chiedere la sua rielezione. Anche per Giorgio: si sarebbe risparmiato alcune inutili amarezze».

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