Quando più di vent’anni fa, la prima volta a Napoli fuori dai giri di famiglia, decisi che era questa la città in cui volevo vivere, lo feci sulla base di un sentimento, l’unico chiaro nel marasma che sperimentavo. Come una complicata equazione, ero lontana dal risolvermi: non ero certa che sarei riuscita a laurearmi, non avevo certezze di lavoro e tutto mi pareva richiedesse un salto da acrobata, una prova da saltimbanco come Arturo ’ncopp ’o filo.
Mancavano reti di salvataggio, ma la mano aperta e tesa dalla città la afferrai.
Leggendo statistiche, classifiche e, al contempo, le cronache, mi dico che forse è questo che la città, nell’acquisire prestigio turistico e consacrazione internazionale, sta perdendo di sé stessa. La festa perenne è bellissima, ma dov’è finita la capacità di guardare con tenerezza persino alla sconfitta? Abbiamo ancora l’ironia di non tendere per forza alla vittoria? Non riuscire, me l’ha insegnato Napoli, è un’eventualità e non si smette di vivere per questo. E forse, per restituire il gran favore, non mi resta che scriverne: fallire (o credere d’aver fallito) è solo un momento e passerà, insieme a tutto il resto.<QM> ©