Terremoto in Irpinia, la scossa che ha spopolato un paese all'anno

Terremoto in Irpinia, la scossa che ha spopolato un paese all'anno
di Generoso Picone
Domenica 13 Settembre 2020, 18:00 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 14:09
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Il percorso dei bus che da Sant'Andrea di Conza portano a Schaffausen e da Calitri a Rorschach, Basilea, Singen, Stoccarda, Ginevra e Berna partenza dal mercoledì al lunedì tra le 15,15 e le 16,45, dalle 21 alle 46 tappe equamente divise tra Italia e Svizzera, arrivo almeno dopo 22 ore vale più di un rapporto Istat, di un dossier Svimez, di un'indagine Censis. Bisognerebbe seguirli, osservare i volti di chi vi viaggia, i bagagli che porta con sé, la rassegnazione che li accompagna per convincersi che il destino di chi nasce da queste parti, nei borghi dell'Appennino meridionale, i centri di quello che Manlio Rossi-Doria definiva il Sud dell'osso che con il terremoto del 23 novembre 1980 si trasformò in cratere, è irrimediabilmente partire: andar via a cercare lavoro, a studiare, a vivere. Emigrare.



L'Irpinia negli ultimi 12 mesi ha perso oltre quattromila abitanti, come se dalla cartina sia stato cancellato uno dei 118 centri, i quali per altro nella stragrande maggioranza hanno una media di residenti che nemmeno supera quella cifra. Nell'Alta Irpinia, l'area a più bassa densità demografica, ogni anno ci sono mille persone in meno. Un trend che, in fondo, non si è mai interrotto. Toni Ricciardi è un irpino figlio di emigrati in Svizzera e oggi è un accreditato storico dell'emigrazione all'Università di Ginevra. Spiega che «se c'è un tratto distintivo e identitario della gente d'Irpinia questo è l'essere emigranti».

Ha ragione. Un secolo fa in provincia vivevano in 416mila e oggi sono 413.926, neanche la ripresa nel dopo guerra, il piano Marshall, il boom economico e il potente flusso economico con la ricostruzione dal terremoto del 23 novembre 1980 sono riusciti a riequilibrare gli assetti. «Certo, ci sono stati segnali in controtendenza con un incremento demografico che ha funzionato da elemento di mantenimento rispetto alle partenze. Poi con gli anni '90 c'è il blocco». Dai 438.812 del 1991 si passa ai 429.073 del 2001 fino al dato di oggi. Ma se dall'Irpinia, dalla terra paradigma del Sud interno, si è sempre preso l'autobus verso la Svizzera che resta la nazione con più irpini traslocati o la Germania o il Nord Italia, ora il viaggio pare essere di sola andata. Stefano Farina, il sindaco di Teora, una delle stazioni di sosta del pullman per la Svizzera, vede il paese svuotarsi dopo l'estate e nota con amarezza: «C'è sempre di meno gente che ritorna. Una volta morti gli anziani, i genitori preferiscono seguire i figli e saltano l'appuntamento di agosto».



Restano le case vuote. Gli appartamenti della ricostruzione. Perché l'allora ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, l'irpino Salverino De Vito, nel 1984 dispose che chiunque avesse una stanza e un letto in un Comune terremotato potesse usufruire dei contributi dello Stato per realizzare un alloggio. Un diritto che rappresentava una sorta di riscatto dopo decenni e secoli di precarietà, indigenza, comunque di condizioni di assai dubbia salubrità e di assolutamente incerta civiltà: ma anche un banco di prova su cui i vari Comuni dovessero strutturare condizioni di vivibilità, in qualità e quantità dei servizi e delle opportunità. La risposta spesso si è espressa nel gigantismo arruffone e di convenienza: opere pubbliche sovradimensionate, onerose nella gestione, impraticabile nella sostanza. Per esempio, a Senerchia il sindaco Beniamino Grillo è da tempo alle prese con una soluzione per la megascuola realizzata nell'area dove sorgevano i prefabbricati leggeri, inaugurata senza nemmeno essere completata nella primavera 2011, ora interessata da infiltrazioni d'acqua e tarata su una frequenza di oltre 200 alunni. Cioè un terzo degli attuali abitanti del paese. «A fatica sono riuscito ad allestire 3 classi, con 8 bambini alla primaria e 6 alla secondaria. Come posso utilizzare un edificio del genere?», si chiede.
 

 


Ripopolare e riabitare i borghi sono le parole d'ordine che risuonano dalla Biennale Architettura di Venezia ai programmi del gruppo di lavoro della Strategia nazionale per le aree interne.

Pur di avere nuovi arrivi qualche sindaco pensa alla scorciatoia delle case in vendita a un euro. Altri adottano la politica degli sgravi fiscali e dei contributi a sostegno, a condizioni che si scelga di risiedere per almeno tre anni e che si iscriva un figlio a scuola. Farina, a Teora, ha già accolto i primi nuclei da Manchester, dall'Argentina, dal Brasile, dalla Sicilia. Basta? Vito Teti, l'antropologo della restanza crasi etica tra restare e resistenza mette in guardia: «I paesi non sono prodotti da promuovere e vendere. Servono parole nuove». Yuri Gioino, sindaco di Lioni e figlio di Antonio Gioino, amministratore e senatore del Pci nei giorni della catastrofe, è convinto che l'unica garanzia sia nel lavoro. «Nel processo di ricostruzione ciò che è venuto meno è stato lo sviluppo. Ora, con la tensione di quei giorni, bisogna guardare alle innovazioni. Il progetto di Lioni borgo 4.0 per la mobilità sostenibile con Paolo Scudieri per noi è il futuro, con nuovi posti di lavoro e di qualità. Dovremo imparare a non piangerci più addosso e a sfruttare le occasioni. Altrimenti sarà la fine».

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