Portanova, il Sebeto e la vendetta del sangue

Dall'antica fratria alla donna uccello, storie e leggende di un mondo perduto

L'ipogeo della chiesa di Santa Maria in Cosmedin
L'ipogeo della chiesa di Santa Maria in Cosmedin
di Vittorio Del Tufo
Domenica 10 Settembre 2023, 10:00
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«La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso»
(Francesco De Gregori, La storia)

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La storia non si ferma davanti a un portone, entra dentro le nostre stanze e le brucia. Quanta storia è entrata dentro i portoni e tra i vicoli di piazzetta Portanova, nel cuore del centro antico, dove Gesù è disteso ai piedi di una vecchia croce, in una chiesa che cade letteralmente a pezzi, diventata il simbolo di tutte le chiese abbandonate: bruciate dalla storia e abbandonate dagli uomini. Il cuore della Napoli greco-romana batte a pochi metri dall'attuale Rettifilo: piazzetta Portanova è una macchina del tempo. Qui a ogni passo incroci fantasmi del passato, ombre che danzano tra le rovine. La chiesa di Santa Maria in Cosmedin è tra le più antiche della città. Narra la leggenda che a fondarla fu l'imperatore Costantino (274-337)negli anni che precedettero l'Editto di Milano, anche se le prime notizie del luogo di culto risalgono all'ottavo secolo. Oggi è un luogo della memoria, sventrato dalla scossa infinita del 23 novembre 1980.

Nulla più resta a testimoniare la grandezza del passato, nulla più resta degli ornamenti, kosmidion, da cui deriva il nome della chiesa. Antonio Pariante, presidente del Comitato Portosalvo, veglia da anni su questo rudere da cui è sparito tutto. «Una desolazione totale e un degrado assoluto condannano l'antichissima e importantissima Chiesa, incastonata nel vecchio cuore della città, all'oblio della sua secolare e nobile esistenza. Una grande testimonianza del prestigioso patrimonio chiesastico napoletano tradita dalle lusinghe dei progetti e dalle promesse di riscatto e valorizzazione mai attuate». 

Poche decine di metri separano la chiesa di Santa Maria in Cosmedin dalla fontana di Spina Corona, o «delle zizze», addossata alla chiesa di Santa Caterina della Spina Corona, nei pressi di piazza Nicola Amore.

Fontana dalle molteplici simbologie esoteriche eretta, nel 1354, per volere dei nobili del Seggio del Nilo. È detta della «Spina Corona» perché si credeva che custodisse, fin dai tempi degli Angioini, una spina della Corona di Cristo. Don Pedro de Toledo, nel 1532, la fece restaurare.

Quante memorie in quella fontana. Partenope, la Sirena alata, spegne il fuoco con l'acqua che le sgorga dai seni. Il suo aspetto, per nulla rassicurante, è quello di un mostrum, busto e testa di donna, zampe e ali di uccello. La primitiva Sirena, alata e senza la classica coda da pesce, è raffigurata come un'arpia ma ha il potere di mitigare gli ardori del vulcano. E forse - nelle intenzioni del fumantino don Pedro - anche dei napoletani. E infatti Dum Vesevi Syerena Incendia Mulcet (la sirena mitiga l'ardore del Vesuvio) è la scritta riportata in una targa di marmo, ormai perduta, che si trovava sul monumento. L'opera presente oggi in strada è una copia dell'originale che è stata prima restaurata negli anni 20 del secolo scorso, per poi essere, qualche anno dopo, rimossa e custodita presso il Museo Nazionale di San Martino. Dalle sue zizze non sgorga più acqua da tempo. I napoletani attribuivano alla fontana poteri magici legati proprio all'acqua che vi sgorgava, derivante dalla confluenza di tre fiumi sotterranei, tra cui il Sebeto. In tempi remoti, nell'area ove sorge la Fontana delle Zizze, potrebbe essersi sviluppato un culto iniziatico dedicato alle arpie, che al pari delle Sirene avevano volto di donna e corpo di rapace. 

Nella zona oggi occupata dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin sorgeva il collegio della fratria degli Agarrei, la cui giurisdizione si estendeva fino all'area dell'attuale Rettifilo. Zona di grande interesse per gli appassionati della Napoli antica, perché vi scorrevano le acque del mitico fiume Sebeto. E davanti alle sponde di quel vecchio fiume, caro ai poeti, agli scrittori e agli dèi, la fratria degli Agarrei si riuniva per curare gli interessi della "tribù". Ma cos'erano le fratrie? Qualcosa di simile a una confraternita. Il termine, derivante dal greco, indicava quelle associazioni politico-religiose che, presumendo di discendere da un capostipite comune, si impegnavano nella difesa della vita, dei beni e dell'onore dei suoi componenti. Una specie di loggia, o di circolo massonico, che sul modello delle altre città greche praticava il mutuo soccorso, soprattutto quando si trattava di lavare onte, di vendicare torti, di vendicare il sangue comune. I membri della stessa fratria vivevano e combattevano uno affianco all'atro, praticavano gli stessi culti religiosi, seppellivano i propri morti in tombe "comunitarie". A Neapolis le fratrie erano almeno dodici: degli Agarrei, ancora oggi, si conosce poco o nulla. Sappiamo però che vi facevano parte i più illustri magistrati della città. Il nome, Agarrei, potrebbe derivare proprio dalle acque del Sebeto, che un tempo scorreva in prossimità delle attuali rampe di San Marcellino, ai confini della città antica.

Ai vertici delle fratrie v'era il fratriarca, o fetrarca. Poi v'erano gli esattori, gli economi, i tesorieri, mentre i semplici soci, maschi e adulti, erano chiamati fretori. Ogni fratria aveva un tempio di riferimento, un luogo di culto e una divinità da invocare, alla quale chiedere protezione. Il Pantheon della Napoli greco-romana era piuttosto affollato: Apollo, Demetra, Atena, i Dioscuri. C'era solo da scegliere. Una delle fratrie più importanti era quella degli Eumelidi, che occupavano la zona dell'attuale largo Donnaregina e veneravano Falero, il leggendario argonauta protagonista (con Argo, Castore, Polluce, Giasone, Orfeo) del viaggio della nave Argo alla conquista del Vello d'oro, cioè del mantello magico dell'ariete Crisomallo, che secondo la leggenda aveva il potere di guarire le ferite. Ma cosa c'entra Napoli con la mitica missione gli Argonauti? C'entra eccome. Perché molto tempo prima che la sirena Partenope si arenasse sugli scogli di Megaride, uno degli Argonauti reduci dalla vittoriosa impresa del Vello d'oro, Eumelo Falero (Phaleros), continuò il viaggio nel Mediterraneo sbarcando, intorno al 1225 a.C., ai piedi dell'attuale collina di Pizzofalcone. Con lui un gruppo di fedelissimi. Gente tosta, abituata a solcare i mari e... a fondare città. Agli uomini dell'argonauta Falero si deve la costruzione, infatti, di un punto di osservazione, nell'area successivamente denominata Megaride, citato da alcuni antichi cronisti. È la mitica Torre di Falero, che secondo il poeta Licofrone «accoglierà la sirena Partenope sbattuta dal mare».

 

Miti, leggende. Ombre del passato. Che rivivono nei luoghi delle antiche fratrie cittadine. Alcune delle fratrie esistenti in città sono state identificate grazie ai nomi dei morti scritti sulle pareti affrescate o sulle lapidi trovate negli ipogei. È il caso degli Eunostidi: i maschi casti della fratria venivano seppelliti nella zona del Borgo dei Vergini, e proprio dalle antiche fratrie della polis greca, e dai loro misteriosi riti religiosi, discenderebbe il culto delle anime dei defunti. Che storia, quella degli Eunostidi. La misteriosa fratria era una comunità di vergini, dedita alla temperanza e alla castità. Comunità nata, a sua volta, per custodire e diffondere la memoria di Eunosto, che secondo una truce leggenda nata in Grecia era il giovane e bellissimo guardiano di un tempio consacrato agli dèi. 

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