La memoria nel fango: lo scandalo della chiesa con i buchi nel tetto

San Diego all'Ospedaletto, in via Medina, è il simbolo della città svilita

Dentro la chiesa di San Diego all'Ospedaletto
Dentro la chiesa di San Diego all'Ospedaletto
di Vittorio Del Tufo
Domenica 2 Luglio 2023, 12:00
6 Minuti di Lettura

«D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda»

(Italo Calvino, Le città invisibili)

* * *

Questa è la storia di due chiese unite da un destino di rovina. La prima, demolita in epoca fascista, si chiamava San Giuseppe Maggiore e si ergeva tra via Medina e via Monteoliveto, dove oggi inizia via Armando Diaz, nel cuore della città ridisegnata dai lavori del Risanamento e successivamente dai progetti di risanamento del rione Sanità. La seconda, che ne ha ereditato il nome, si trova nel primo tratto di via Medina, proprio di fronte alla Questura, e versa da anni in condizioni di scandaloso abbandono, malgrado custodisca tesori d'arte sopravvissuti prima al terremoto del 1688 e poi ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Originariamente si chiamava San Diego all'Ospedaletto, in ricordo di un ospedale fondato in questo luogo nel 1514. Poi le venne attribuito il titolo appartenente al luogo di culto demolito; da allora è conosciuta come chiesa di San Giuseppe.

Ma quello di via Medina, con i suoi osceni squarci nel tetto dai quali provengono infiltrazione che ne compromettono la stabilità, non è un luogo di culto come altri. Un tempo conservava le decorazioni di tre pittori formatisi alla scuola del naturalismo caravaggesco: Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione e Andrea Vaccaro. Tre geni che si alternarono nella decorazione dell'edificio di culto immaginando forse un destino meno inglorioso per le loro opere. Gli affreschi di Battistello Caracciolo sono sopravvissuti, mentre, in seguito al terremoto del 1688, sono andate distrutte le testimonianze degli altri due pittori, con l'eccezione di due dipinti su tela: il Transito di San Giuseppe (Stanzione) e il Sant'Antonio da Padova (Vaccaro).

I bombardamenti della Seconda guerra mondiale hanno causato il crollo della volta e della tribuna della chiesa e con esse le decorazioni di Angelo Mozzillo, Andrea Mattei, Nicolò Rossi e Gaetano Brandi che celebravano opere e virtù di San Diego e in particolare l'Evangelizzazione del popolo delle Isole Canarie.

La chiesa, come si diceva, conserva il nome originale di San Diego all'Ospedaletto perché il suo primo nucleo era una cappella con annesso ospedale «per poveri gentiluomini» (1514), ben presto dismesso e trasformato in convento dai Minori Osservanti cui era stato concesso nel 1542. La chiesa vera e propria venne costruita nel 1595 è dedicata a San Diego di Alcalà, religioso spagnolo vissuto nel 400 e canonizzato alla fine del Cinquecento.

* * *

Ma facciamo un piccolo passo indietro. La vecchia chiesa (quella demolita) di San Giuseppe ha una storia singolarissima. Fu costruita nel sedicesimo secolo dai mannesi, ovvero i costruttori e riparatori di carri, che desideravano innalzare un tempio al loro patrono. La potente congrega dei «Mastri d'ascia detti legnaioli» riuscì a coinvolgere artisti del calibro di Belisario Corenzio, Francesco Solimena e Pietro Bardellino. Fino alla demolizione, avvenuta in epoca fascista, la chiesa di San Giuseppe Maggiore conservò l'impronta neoclassica (facciata e pronao) di cui è rimasta testimonianza in alcune stampe antiche. Celebre la litografia di Raffaele D'Ambra, con le «gradelle» sorte dopo il 1742, quando nello spazio di via Medina venne eretto l'edificio del Seggio di Porto a ridosso del Palazzo Caramanico d'Aquino.

Memorie di un tempo passato. L'antica chiesa, mirabile esempio di Napoli nobilissima, venne demolita nel 1934 per far spazio alle nuove costruzioni di architettura fascista, quando fu avviata un'opera di risanamento del quartiere che portò alla costruzione dei palazzi della Questura, delle Poste, della Provincia e della Casa del Mutilato durante il Ventennio Fascista. «Se fino all'Ottocento - osserva Renato De Fusco nel libro Rileggere Napoli nobilissima - Monteoliveto divideva la Neapolis da una parte della città moderna, dagli anni 30 del Novecento essa divide il centro antico da un altro contemporaneo, aggettivo che periodizza la storia dopo la rivoluzione industriale. Se la cosiddetta bonifica del Rione Carità fu realizzata in danno del Rinascimento, Monteoliveto è la testimonianza di questa ferita e in pari tempo il ricordo di com'era l'antico quartiere».

* * *

Con la demolizione della vecchia chiesa di San Giuseppe Maggiore, fu San Diego all'Ospedaletto, in via Medina, ad ereditarne il titolo. Un gioiello rinascimentale che oggi rischia di andare perduto per sempre, sotto gli occhi delle istituzioni che avrebbero il dovere di impedirlo. La chiesa, aperta al culto e visitabile fino a cinque anni fa, ha conosciuto un inarrestabile declino a partire dalla caduta di piccole parti di intonaco sull'ingresso della navata di sinistra. Oggi è pericolante e completamente abbandonata: il tetto non ha più le tegole e l'acqua piovana continua a comprometterne la stabilità. Come è potuto accadere? Lo abbiamo chiesto a Paolo Barbuto, cronista di lungo corso che al recupero delle chiese abbandonate e chiuse a chiave ha dedicato appassionate e preziose inchieste giornalistiche.

* * *

«Per decenni San Diego all'Ospedaletto è stato un simbolo di fede per il quartiere: i devoti di San Giuseppe non lasciavano mai la statua (oggi portata in salvo nella vicina chiesa della Pietà dei Turchini) senza un cero, senza una preghiera; qui disse messa anche Don Bosco in una giornata che è ancora ricordata nei libri in sagrestia. Oggi questo luogo è la plastica rappresentazione dell'incuria nella gestione dei beni pubblici. L'edificio è di proprietà del Comune di Napoli: si tratta di una struttura estremamente vasta che comprende anche il vicino convento che un tempo era un ospedale. L'area conventuale, che pure versa in condizioni imbarazzanti di degrado, è stata ceduta in fitto alla Polizia di Stato che versa un canone da 19mila euro l'anno. Mentre la caserma riceva un po' di manutenzione ordinaria da parte della stessa polizia, alla chiesa dovrebbe badare il proprietario che, invece l'ha abbandonata al suo destino».

Ricorda Barbuto che quando le tegole del tetto, nel 2018, volarono via dopo una tempesta, si aprì uno squarcio dal quale entravano pioggia e animali. L'attuale rettore, don Simone Osanna, parroco della Pietà dei Turchini, racconta la sequenza del disastro, non riesce a trattenere un pizzico di rabbia: «Da Palazzo San Giacomo mi dissero semplicemente che non avevano soldi per rimettere in sesto la chiesa. Avevano l'obbligo di imporre la chiusura di fronte al pericolo ma non avrebbero potuto fare null'altro».

Di fronte a quella pubblica ammissione di resa, don Simone rimase senza parole e la chiesa restò senza tutela. «Affreschi settecenteschi inzuppati dall'acqua piovana, marmi antichi bruciati dal guano perché negli ultimi cinque anni la chiesa è stata colonizzata dai piccioni. L'anno scorso, con l'avvento di una nuova amministrazione locale, don Simone - ricorda Barbuto - provò a lanciare un altro appello, anche questo caduto nel vuoto».

Intanto il tetto continua a sprofondare: e con esso ciò che resta di una chiesa che affonda le sue radici nella memoria collettiva della città. Città ancora nobilissima, certo, ma infettata dal germe dell'incuria, del degrado e troppo spesso della strafottenza. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA