La grandeur di Murat e il cuore di tenebra sotto piazza Plebiscito

La memoria nascosta nei labirinti di pietra tra cunicoli e corridoi

Dentro le viscere del Plebiscito
Dentro le viscere del Plebiscito
di Vittorio Del Tufo
Domenica 24 Dicembre 2023, 12:00
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«Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi»

(Joseph Conrad, Cuore di tenebra)

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La memoria è custodita nei labirinti di pietra. C'è un cuore che batte sotto la piazza di re Murat, è il ventre del Plebiscito ed è nascosto da oltre due secoli. Un ambiente sotterraneo, di oltre mille metri quadri, che si dirama tra cunicoli e corridoi attorno a una vasta sala circolare, con volta di copertura sorretta da una struttura a forma di fungo. Un luogo della memoria, che nell'insieme ha le stesse dimensioni della chiesa di San Francesco di Paola, nella parte superiore. Un luogo da restituire ai napoletani, da riconnettere al corpo vivo della città.

Lo spettacolare ipogeo di piazza Plebiscito ci riporta al decennio che vide Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat sul trono di Napoli (1806-1815). Decennio di grandi trasformazioni urbanistiche, che avrebbero dovuto evocare - a cominciare dal Ponte Napoleone, poi ribattezzato Ponte della Sanità - la grandeur della Francia, le campagne d'Italia, il frastuono della Rivoluzione e il suono delle teste che rotolavano. Decennio che porterà nella capitale del Regno non poche innovazioni, dall'abolizione del sistema feudale all'adozione del codice civile napoleonico. Porterà anche un bel po' di lavori pubblici, con l'obiettivo di imprimere un'accelerazione all'asfittica economia del Mezzogiorno. Fu Gioacchino Murat, il successore di Giuseppe Bonaparte, a ordinare ai suoi architetti di risistemare la piazza, l'antico e irregolare Largo di Palazzo.

Al concorso si segnalò subito il progetto dell'architetto napoletano Leopoldo Laperuta, coadiuvato da Antonio De Simone.

A quei tempi nel Largo vi erano soltanto la Reggia e il palazzo che sarà poi del principe di Salerno. Nelle intenzioni di Murat, nella piazza antistante la Reggia sarebbe dovuto sorgere un Foro talmente grandioso da restare memorabile nella storia non solo di Napoli ma dell'intera Europa. Il 25 marzo 1809 vi fu la posa della prima pietra. Furono demoliti conventi, chiese e monasteri, ad eccezione dell'attuale Palazzo Salerno. Furono abbattuti i palazzi alle falde della collina di Pizzofalcone e quelli circostanti il Largo, mentre cominciavano i lavori per la costruzione del porticato che avrebbe dovuto cingere la piazza in un grandioso anfiteatro. Il progetto includeva anche la sistemazione della parte sotterranea, che doveva servire come luogo di incontro collettivo, magari per spettacoli ed eventi.

Sappiamo tutti come sono andate le cose. I lavori furono interrotti dalla seconda restaurazione borbonica, mentre Murat finiva tragicamente i suoi giorni a Pizzo, in Calabria, davanti a un plotone di esecuzione, il 13 ottobre 1815:
Sauvez ma face, visez mon coeur!

Con l'uccisione di Murat, la conseguente fine del dominio francese e il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli, i lavori di riqualificazione urbana, che erano iniziati nel 1809, subirono uno stop per poi riprendere con un nuovo progetto affidato da re Ferdinando IV all'architetto Pietro Bianchi, che rispolverò in parte quello di Laperuta ma trasformò il grande edificio pubblico semicircolare voluto da Murat in un tempio classico in onore di S. Francesco di Paola. Ma questa è una storia nella storia.

Che merita di essere raccontata. 

«Fosti quarto, fosti terzo, or t'intitoli primiero; e se seguita lo scherzo finirai per esser zero!». Così una geniale e perfida strofa popolare si prendeva gioco di re Ferdinando di Borbone, che dopo essere fuggito da Napoli nel 1799 con il nome di Ferdinando IV, vi era tornato assumendo come sovrano del Regno di Sicilia il titolo di Ferdinando III per poi diventare semplicemente Ferdinando I del Regno delle Due Sicilie. Per tre volte Re Nasone aveva perduto il potere assoluto e per tre volte, testardamente, lo aveva riconquistato. «Ma egli seguita a credere che il trono sia un seggiolone su cui potersi sdraiare e dormire», disse di lui il conte Metternich dopo averlo rimesso in sella soffocando nel sangue la breve stagione rivoluzionaria e "costituzionale" del 1820.

Fu in quegli anni che Ferdinando decise di edificare la chiesa di San Francesco di Paola nel largo di fronte al Palazzo Reale come ex voto per il suo ritorno nel travagliatissimo regno. Il devoto sovrano era convinto di aver goduto in qualche modo dell'intercessione divina, e in particolare dei buoni auspici del santo eremita Francesco di Paola, il quale parecchi secoli prima aveva predetto che un giorno quel luogo, un tempo malfamato, alle pendici del monte Echia, sarebbe divenuto «il più importante e popolato» non solo di Napoli ma dell'intero Regno. Il Largo di Palazzo, poi Foro Murat, poi Foro Ferdinando, quindi largo San Francesco di Paola, finì col chiamarsi Piazza Plebiscito in ricordo della manifestazione di volontà popolare espressa il 21 ottobre 1860 per l'adesione del Regno di Napoli a quello della nuova Italia unificata. 

«L'ipogeo sottostante la basilica di San Francesco di Paola - spiega l'architetto Aldo Capasso, che alla nostra Piazza Grande ha dedicato un documentatissimo libro ricco di contributi multidisciplinari - ha un enorme valore spaziale ed architettonico. Purtroppo l'apertura è ancora da decidere, come l'utilizzo degli spazi sotterranei. L'ipogeo, con la sua forma a fungo, o meglio a tromba, oltre a sostenere la chiesa, è come se "richiamasse" la città a visitare la sua bellezza».

Giusto. Il Plebiscito può diventare il luogo principe della città che coltiva la sua vocazione più forte, quella turistica, l'agorà dove il linguaggio della modernità si incrocia con le memorie e le emozioni del passato, con la storia stessa di Napoli capitale. Eppure, per troppi anni, un incomprensibile immobilismo ha condannato la grande piazza a marcire nel buio. Perciò vanno sostenuti gli sforzi, sia pur tardivi, che sono stati messi in campo dall'amministrazione e dalla sovrintendenza per il rilancio e l'illuminazione del colonnato di San Francesco di Paola. Certo, in una città troppo piena, c'è anche la bellezza del vuoto. E il metafisico vuoto del Plebiscito, con la sua platea sterminata, esprime, qui più che altrove, la bellezza senza tempo di una città anfiteatro. Ma è una bellezza tradita, stravolta dall'incuria, trasfigurata dal buio. Per questi motivi va salutato con ottimismo l'accordo - firmato ad agosto alla presenza del ministro Piantedosi - per la valorizzazione, la riqualificazione e la gestione unitaria del complesso del Plebiscito e del suo ipogeo, che nelle intenzioni dell'amministrazione dovrebbe diventare uno spazio espositivo. L'iniziativa, avviata grazie alla sinergia tra tutti gli attori istituzionali coinvolti, intende promuovere la gestione unitaria delle attività connesse alla riqualificazione di piazza del Plebiscito, del colonnato, degli spazi sotterranei e dei locali del Fondo Edifici di Culto, realizzando interventi di manutenzione e restauro del colonnato e dei retrostanti edifici nonché di illuminazione diffusa, al fine di valorizzare l'intera piazza e assicurarne la piena fruizione pubblica. Il cuore di tenebra del Plebiscito, insomma, tornerà a battere tra le ombre e i fantasmi di vecchi re. 

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