Vicolo storto, vicolo stretto: i venditori di lune e il cielo sopra Santa Lucia

Pallonetto, Egiziaca, Serapide, Solitaria: la toponomastica è un teatro di ombre, dove danzano i fantasmi del passato

I venditori di lune e il cielo sopra Santa Lucia
I venditori di lune e il cielo sopra Santa Lucia
di Vittorio Del Tufo
Domenica 4 Giugno 2023, 12:00
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«A noi toglieteci dallo stomaco il tam tam selvaggio dell'appetito, e subito ci fabbrichiamo una garitta di paradiso in qualunque inferno»

(Giuseppe Marotta)

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Occorre un notevole sforzo di fantasia per immaginare il Pallonetto prima del Pallonetto. Immaginare che in quelle stradine strette, storte, affastellate e sghembe vi si svolgesse un gioco simile alla pelota, il pallonetto appunto, praticato nel 400 nella Firenze dei Medici, insomma l'antenato del calcio. Gioco che avrebbe dato il nome (Carlo Celano dixit, e se lo diceva Celano c'è da fidarsi) ad una zona della città. Anzi tre zone: il Pallonetto di Santa Lucia, il Pallonetto di Santa Chiara e il Pallonetto di San Liborio. Si racconta che il gioco del pallonetto prevedesse l'utilizzo di piccole sfere realizzate a mano contenenti una pallina di piombo avvolta in gomma e lana con una copertura di cuoio, che doveva essere colpita dai giocatori con una mano nuda o guantata. Non sappiamo se questo gioco, come si tramanda, avesse davvero attecchito tra le pendici del Monte Echia; sappiamo però che il Pallonetto Santa Lucia, più che terra di giochi, è luogo di abissi, di miti e di venditori di lune, come i protagonisti di uno dei libri più belli di Giuseppe Marotta, Gli alunni del tempo, pubblicato nel 1960. Il più antico dei tre Pallonetti ha una storia leggendaria perché si intreccia con il mito delle origini, sorgendo a poca distanza dall'isolotto di Megaride, dove Partenope venne a morire e dove sbarcarono primi coloni greci, fondando la città antica. 

Pallonetto, Egiziaca, Serapide, Solitaria. La toponomastica è un teatro di ombre, dove danzano i fantasmi del passato. Egiziaca a Pizzofalcone, prima di essere una strada, era il nome di un luogo di culto nato da una costola dell'antica chiesa di Santa Maria Egiziaca a Forcella.

Nel 600 cinque monache agostiniane decisero di cambiare area e scelsero, per svernare, l'aria ben più salubre di Pizzofalcone. E via Serapide? Ci riporta nel pantheon di Chiaia e degli dèi pagani. Nel grande albero della mitologia greca c'è un dio che veniva raffigurato barbuto come Zeus e Ade, seduto sul trono con un moggio di grano in testa, con uno scettro in mano e l'altra impegnata ad accarezzare Cerbero, il cane a tre teste, uno dei mostri cari ai guardiani degli inferi. Quel dio si chiamava Serapide e a Napoli, nell'area di Cappella Vecchia dove oggi sorge una palestra, esisteva un tempio a lui dedicato. Via Solitaria prende invece il nome dalla chiesa di Santa Maria della Soledad, fondata alla fine del Cinquecento da una confraternita di soldati spagnoli. 

«Filastrocca del Pallonetto, vicolo storto vicolo stretto, senza cielo senza mare, senza canzoni da cantare»: così Gianni Rodari descriveva, nel 1981, il Pallonetto Santa Lucia. E invece, come scrisse Marotta, «il mare è a due passi, assorto e solenne davanti a questo martirio come un'acquasantiera». Il mare «assorto e solenne» è quello che il Pallonetto, con i suoi miti e le sue leggende, con le sue case scavate nel tufo del Monte Echia, sovrasta dall'alto, lasciandosene ammaliare. Dalle loro minuscole abitazioni ecco uscire ed invadere le strade del Pallonetto la guardia giurata don Vito Cacace e i suoi «alunni», donna Brigida e don Leopoldo, don Fulvio Cardillo, «venditore di luna», e gli altri abitanti del quartiere. Non ce la fanno a star chiusi dentro le pagine del loro inventore: hanno bisogno di mettere il naso fuori dai loro bassi i bottegai e i garzoni di bar, i pescatori e i contrabbandieri, il popolo del Pallonetto e di Santa Lucia che accorreva alle "lezioni" di don Vito. Marotta, afflitto da mille mali, per lo più immaginari, accanto a quel luminare, sia pure frutto della sua fantasia, si sentiva più tranquillo. Così, almeno, confidava agli amici, tra i quali il compianto Vittorio Paliotti, lo scrittore che sussurrava ai ricordi. 

Miti di ieri e miti di oggi. Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri, è cresciuto al Pallonetto Santa Lucia come un cucciolo nella giungla.

Giovanni imparò a nuotare a quarantatré anni: quando ne aveva dieci gli amici lo tenevano sospeso, gambe all'aria, dal ponte che collega via Partenope a Castel dell'Ovo minacciando di lasciarlo cadere se non avesse cantato.
E Giovanni cantava, cantava, raccontandosi mille volte la stessa favola ambientata in quelle stesse acque nelle quali aveva paura di tuffarsi, la favola di un bambino con le lunghe dita palmate, le branchie e la pelle squamosa, che si chiamava Colapesce ed era capace di restare ore e ore sott'acqua senza risalire a galla per respirare.
Anche Giovanni, come il pesce Nicola, era nato in riva al mare di Santa Lucia, solo che lui era cresciuto ai piedi del letto dei genitori, affogando il pane di tre o quattro giorni nella zuppa di latte a casa dell'amico del cuore, che si chiamava Vincenzo, e che come lui abitava all'ombra del monte che vide nascere la Città. Anni dopo, ripensando ai bruschi risvegli con l'acqua gelata in faccia, quel bambino avrebbe parlato della zuppa di latte come della cosa «più concreta e insieme spirituale» che esista. Una preghiera laica.
Giovanni è il quinto di otto figli, metà maschi e metà femmine. Del vicolo dove è nato, via del Pallonetto, al numero 41, si porterà addosso per tutta la vita gli odori, le speranze, le malinconie, la dignità e l'acqua di mare. La toponomastica della memoria è un fazzoletto di strade chiamate Pallonetto, Egiziaca, Serapide, Solitaria, dove Giovanni cresce come un cucciolo nella giungla. Non canta solo per gli amici, ma anche per gli avventori del Tourist bar di Santa Lucia, dove, a undici anni, lavora come cameriere.

«Chi vo' vevere, che è fredda!».
Le donne scendevano dal Pallonetto per raggiungere il Chiatamone. Lì raccoglievano l'acqua della sorgente del monte Echia, che serviva per rifornire i chioschi di Napoli e della provincia. Ai primi dell'Ottocento la fonte era stata resa comodamente accessibile tramite una gradinata e, intorno a essa, si affollavano i dettaglianti e gli acquirenti. Nell'800 buona parte dei mezzi di sostentamento dei luciani proveniva dalla vendita all'ingrosso e al dettaglio delle acque minerali. L'approvvigionamento era un esercizio democratico. Il 1 settembre 1731, durante il governo del viceré Luigi Tommaso Raimondo conte di Arrach, allo scopo di evitare ingiuste speculazioni fu amanata un'ordinanza il cui testo, inciso sul marmo, venne murato in via Chiatamone: «Appartenendo al nostro tribunale la piena cura di questa acqua ferrata sperimentata giovevolissima a' nostri cittadini, e ricorrendo all'uso di essa moltissima gente bisognosa della virtù di lei, (...) ordiniamo che nessuno ardisca intromettersi nella distribuzione di essa acqua». E nessuno si intrometteva: anche perché, in caso di trasgressione, erano previsti sei mesi di carcere. In alcuni casi le mummarelle, di cinque o sei litri, venivano portate direttamente nelle case dei privati: l'acqua suffregna del Chiatamone veniva adoperata anche per fare i bagni ai bambini gracili.

Ma arrivò il colera, e cambiò tutto. Nel 73, preoccupate per la tenuta igienica delle mummare, le autorità sanitarie vietarono la vendita dell'acqua suffregna. Dei venditori d'acqua di Santa Lucia restarono solo i disegni, qualche foto e i ricordi degli ultimi acquafrescai, come la mitica Zi' Nennella che aveva il chiosco in piazzetta Teodoro Monticelli, davanti a Palazzo Penne, nelle stradine che furono di Matilde Serao e Pino Daniele.

I napoletani non smisero di amarla, anche quando non poterono più abbeverarsene, e la confinarono tra le cose perdute. 

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