Sansevero, Caravaggio e le ombre in fuga dall'Archivio storico di Napoli

Via dei Tribunali, le filze di documenti compongono l'architettura della memoria

Sansevero, Caravaggio e le ombre in fuga dall'Archivio storico di Napoli
Sansevero, Caravaggio e le ombre in fuga dall'Archivio storico di Napoli
di Vittorio Del Tufo
Domenica 21 Gennaio 2024, 10:00
6 Minuti di Lettura

«Nessuno, nessuno poteva immaginare che l'opera firmata da Sanmartino sarebbe diventata una delle immagini simbolo di Napoli nel mondo. Il mio Maestro sì, lui lo aveva capito subito. Lo avevano dipinto in tutti i modi, il principe, prima di quel giorno, e ogni pennellata era più nera di quella precedente».

* * *

Raimondo lo stregone. La favola nera di San Domenico. Il genio pazzo che custodiva nel suo palazzo gli oggetti più strambi di questo mondo: una Lampada Perpetua, o Luce Eterna, composta da una miscela di fosfato di calcio e fosforo ad altissima concentrazione in grado di bruciare fino alla notte dei tempi; un reliquiario identico a quello che conteneva il sangue di San Gennaro, grazie al quale Raimondo, utilizzando mercurio e altre misteriose sostanze (quali non lo confiderà nemmeno agli amici) riusciva a riprodurre nel suo Athanor segreto qualcosa di molto simile alla liquefazione del sangue del santo patrono: una reliquia blasfema degna di un Anticristo! Un esoterista fuori controllo che non esitò a pagare 2000 ducati al suo medico di fiducia, Giuseppe Salerno, per realizzare l'orribile teca dove alloggiare le famigerate macchine anatomiche: una ricostruzione pressoché perfetta delle reti venose e arteriose, realizzata, molto probabilmente, grazie a una sostanza "pietrificatrice" in grado di metallizzare il sistema arterioso e venoso e distruggere le parti molli del corpo. A conferma del fatto che quel diavolo di un principe era a conoscenza, con un secolo d'anticipo, di tecniche innovative e conoscenze ignote al resto dell'umanità. Un'opera talmente raccapricciante - e perfetta - che in tanti, a lungo, non hanno esitato a credere che per realizzarla il principe non si fosse fatto scrupolo di uccidere due servi, un uomo e una donna incinta.

* * *

Quante calunnie. E quanta invidia. Ora che sorrideva davanti al genio timido e quasi impacciato di Sanmartino, il Maestro pensava che l'Arte, solamente l'Arte con il soffio sublime, e le gemme preziose che stava incastonando, pezzo dopo pezzo, opera dopo opera, nella cappella di famiglia trasformata in uno scrigno di capolavori, avrebbe potuto spazzare via quelle stupide maldicenze, e gli avrebbe restituito il posto che gli spettava nell'Olimpo dei Mecenati. Era o non era, Sansevero, il dotto studioso che per 120 ducati aveva acquistato una bibbia poliglotta dal mercante d'arte Antonio Clemente? Era o non era l'innovatore che aveva realizzato una stamperia nel proprio laboratorio sotterraneo, acquistando ben trentamila caratteri mobili dallo stampatore Nicolò Kommarek? Oh, sì, l'Arte gli avrebbe finalmente reso giustizia. Quella scultura, la più straordinaria di tutte, si sarebbe chiamata Cristo Velato: l'aveva realizzata interamente il giovane scultore napoletano, con una tecnica prodigiosa che avrebbe lasciato sbalordite intere generazioni di studiosi. Nessun oscuro sortilegio, insomma, anche se la straordinaria aderenza del velo-sudario al corpo di Cristo avrebbe autorizzato nei secoli le ipotesi più stravaganti, come quella secondo cui lo stesso Sansevero avrebbe insegnato al Sanmartino la tecnica di marmorizzazione alchemica, grazie alla quale il velo, adagiato sulla statua, si sarebbe poi con il tempo solidificato. Quante bugie: se di prodigio si trattò, fu il miracolo di un genio dell'arte. Il drapeggio, la finezza del velo, la sinuosità delle forme: un capolavoro più bello dei capolavori di Michelangelo.

* * *

Fin qui il racconto di Gennaro Tibet, l'«umile servitore» di don Raimondo.

Spirito ardito e genio del suo tempo; ma, per la storia, Principe Pazzo. La cupa leggenda che lo perseguitò in vita lo avrebbe accompagnato pure nei secoli a venire, al punto che a lungo è circolata la storiella - nulla di più falso, è bene precisarlo - secondo la quale Sansevero avrebbe accecato il povero Sanmartino per impedirgli di realizzare, in futuro, opere di uguale bellezza.

È grazie al principe, e alla sua fama sinistra, se l'area di piazza San Domenico Maggiore è ancora oggi considerata il cuore esoterico della città, l'epicentro della Napoli dei misteri. Di molte invenzioni di don Raimondo - la lampada perpetua, la carrozza anfibia, la cera vegetale, i quadri di lana - non è rimasta traccia. Alla morte del principe, nel 1771, venne effettuato un inventario dei beni e degli oggetti più o meno stravaganti conservati nel palazzo di piazza San Domenico (dove viveva Raimondo di Sangro). Quel palazzo una cui ala, la notte tra il 22 e il 23 settembre 1889, crollò, cancellando il passaggio sopraelevato tra lo stesso edificio e la Cappella Sansevero. Il crollo (che probabilmente cancellò numerose altre testimonianze del passato) fu provocato da una profonda infiltrazione d'acqua proveniente dalle condotte dell'acquedotto del Serino.

* * *

Non solo il principe di Sansevero, con le sue "prodigiose" committenze. Tante altre ombre danzano nel teatro di carta di via Tribunali (il presidente della Fondazione Banconapoli è Orazio Abbamonte, quello della Fondazione Cartastorie Marcello D'Aponte). Le storie del Cartastorie intrigano, affabulano, coinvolgono. Specie quando a illustrartele è il Munaciello in persona, ovvero il piccolo spirito deforme protagonista della visita teatralizzata nel museo dell'Archivio Storico del Banco di Napoli (organizzata dalla compagnia Tappeto Volante con l'associazione Manallart). Circa ottanta chilometri di scaffalature contengono diciassette milioni di nomi, centinaia di migliaia di storie di pagamenti e dettagliate causali che ricostruiscono un affresco vivo di Napoli e di tutto il Mezzogiorno, dal 1573 sino ai giorni nostri. Un tesoro di carta lungo 450 anni.

Le filze di documenti compongono un'architettura della memoria. Sono state ribattezzate «kebab di carta» per la forma simile al tipico spiedo mediorientale. In cima a un kebab c'è un omino stilizzato che accoglie i visitatori raccontando loro una transazione operata a fine Cinquecento da due persone, Felice e Vincenzo, che per 47 ducati comprarono 26 litri di vino di Somma Vesuviana («non si sa se per venderlo o se per farsi na bella mbriacata» suggerisce l'omino a cui presta la voce l'attore Pietro Pignatelli). Un'altra stanza dell'Archivio celebra il genio dell'impresario Domenico Barbaja, interpretato dall'attore Sergio Longobardi, che si fregia di «aver fatto grande il San Carlo» e di aver commissionato a Donizetti, Rossini e Bellini opere destinate a diventare immortali.

E ancora. Duecento ducati: tanto costò la committenza della pala Radolovich a Caravaggio. Il ricco mercante croato che che la ordinò, Niccolò Radolovich - siamo agli albori dell'inquieto 600 napoletano - pretese che venisse realizzata «con l'Imagine della Madonna col Bambino in braccio cinta di cori d'Angeli et di sotto S. Domenico et S. Francesco nel mezzo abbracciati insieme dalla man dritta S. Nicolò et dalla man manca S. Vito». Siamo nel cuore di un mistero centenario. Non si sa se questa pala sia mai stata realizzata o sia andata perduta: di certo ne è rimasta traccia tra le carte ritrovate in una delle stanze del più imponente archivio storico bancario del mondo. 

(2/ fine)

© RIPRODUZIONE RISERVATA